RADICALI ROMA

Il Tempo – Parla Manlio Cerroni: "Soldi, regali, complotti. Sui rifiuti d’oro ora parlo io"

Prima puntata delle verità choc del “re” delle discariche 

 

«Allora, cari giornalisti. Sui giornali mi avete descritto come il Monopolista, il Supremo, il Corruttore, l’Assoluto, l’Inquinatore. Di tutto avete scritto. Adesso basta. Parlo io, ma a una condizione: voi fate qualsiasi domanda, anche la più scomoda. Poi però mettete integralmente la risposta. Perché io meritavo la cittadinanza onoraria di Roma per quello che ho fatto in tutta la mia vita e invece rischio di passare per il bandito che non sono. Cominciamo?».
Nel roof garden di un hotel a Fiumicino il re delle discariche Manlio<ET>Cerroni, indagato nello scandalo sui rifiuti d’oro, ci accoglie più battagliero che mai. È in grande forma, 88 anni portati alla grande, tanti sassolini da togliersi. Si capisce subito che sarà un’intervista pirotecnica.

 

Senta Cerroni, non è che anche lei adesso pensa a un complotto, vero?
«Ecco, la parola giusta: complotto. Quel che è stato fatto ai miei danni è un complotto in piena regola finalizzato a scipparmi il business dei rifiuti che gestisco da una vita. Se avete pazienza vi spiego perché. Occorre partire da lontano, dalle beghe delle discariche alternative a Malagrotta».
Prego. Cominciamo col prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro. Annunciò in conferenza stampa, nel 2011, che i siti migliori tra quelli individuati dalla Regione per la nuova discarica di servizio erano due: Riano-Quadro Alto, come prima scelta, Corcolle come seconda. Perché Corcolle divenne poi la prima scelta?
«La risposta è negli atti, è sugli articoli di giornali. Il prefetto e più ancora la governatrice del Lazio, Renata Polverini, a un certo punto dissero che la cava di Quadro Alto era del “monopolista”, cioè io. Mi chiamano così. Di conseguenza vennero date disposizioni che tutti i siti legati al sottoscritto “monopolista” semplicemnte non potevano esistere».
Quindi sta dicendo che a un certo punto la valutazione del prefetto Pecoraro cambia e lei non capisce perché?
«Già, cambia con Corcolle».
E come se lo spiega che dalla lista dei sette siti scelti dalla Regione Lazio improvvisamente scompare Allumiere e compare Corcolle?
«Fu una sorpresa non solo mia, ma di tutti. Per scoprire l’arcano occorre andare al 1975, quando la discarica di Rocca Cencia va in esaurimento e la città necessita di una una discarica di servizio. E poiché Corcolle è la più vicina a Rocca Cencia, da cui dista solo tre o quattro chilometri, il mio gruppo decide di puntare su Corcolle. Tra l’altro conoscevo molto bene il proprietario, Salini. Pensai, ma sì, gli do’ un’allargata ed è fatta. Magari riuscissi a fare una discarica così».
Lei, dunque, aveva un’opzione su Corcolle?
«Certo certo. Ma prima bisognava sentire le autorità, fare una serie di sondaggi. Poi venne fuori che in quel sito ci andavano i romani la domenica a prendere l’acqua, e l’idea di una discarica fu abbandonata. Allora puntammo sull’area di Malagrotta, dove c’erano spazi enormi ed erano già presenti delle cave perché era stato prelevato materiale per realizzare le piste dell’aeroporto di Fiumicino. Roma, inoltre, a quel tempo aveva un problema con il nuovo Centro carni. Non sapevano come smaltire gli avanzi della macellazione, le budella, la coratella, le frattaglie. A quel tempo, poi, a Malagrotta non c’erano case. Era un sito totalmente isolato. Poi ci hanno assediato con tutti gli insediamenti spontanei che sono sorti. Quando si scelse Malagrotta abbandonando l’idea di Corcolle nessuno parlava ancora di Villa Adriana che sta lì da qualche secolo. Nessuno si pose mai il problema della vicinanza o meno dal sito archeologico».
Scusi avvocato, qualcosa non torna. Perché la prima scelta del prefetto Pecoraro nel 2011 ricade sul «suo» Quadro Alto (Riano) se lui sa che quel sito è del “monopolista”, cioè suo? Nel suo libro che andrà a breve in stampa lei è a dir poco rancoroso nei confronti del prefetto. Dica la verità, c’è rimasto male?
«No no, attenzione! C’è una lettera ben precisa in cui richiamo le responsabilità, i fatti come si sono svolti. Ho detto al prefetto “se questa è la situazione mi dica lei cosa devo fare”. Nel libro che voi richiamate c’è un passaggio in cui appare chiaro che la risposta a quella domanda è arrivata il 9 gennaio. Il giorno dell’arresto».
Sta dicendo che Pecoraro la molla quando scoppia l’inchiesta? Non è che davvero si sta perdendo dietro a ipotesi complottiste?

«Allora non volete proprio capire. È stato un complotto, un disegno di chi vuol fare giochi per interessi propri. Occorreva far fuori il monopolista, l’unico al mondo in grado di gestire i rifiuti della Capitale. Dovevano togliere di mezzo il<ET>Supremo è ci sono riusciti».

 

Ma chi ci sarebbe dietro il complotto?

«Un mix di politica, giudiziaria, alta finanza. Si sono dovuti impegnare parecchio a far fuori il Supremo che persino in Australia è riconosicuto urbi et orbi imparadigmabile».
“Imparadi…” che?
«Vuol dire che sono riconosciuto universalmente come il migliore di tutti, in Italia e in Europa, nel settore del trattamento dei rifiuti».
Lasciamo perdere per un secondo i complotti e andiamo all’inchiesta vera e propria. Cosa ha rappresentato per lei?
«Uno tsunami. Un ciclone che dopo tanti spifferi ha investito me, la mia famiglia, il mio gruppo. Con i carabinieri che un bel giorno si presentano con un mandato e arrestano 21 persone con accuse incredibili: io ero a capo di un’organizzazione malavitosa che teneva in ostaggio Roma e il Lazio. All’inchiesta è seguita una martellante campagna stampa denigratoria che mi dipingeva come un criminale, dominus di attività illecite mai contestate in più di 50 anni di attività con 33 sindaci da me conosciuti personalmente. Con una descrizione del genere era naturale che la gente applaudisse affinché fosse fatta giustizia. Nessuna voce si è levata in mia difesa, nessun politico che per anni mi era stato vicino ha detto una parola. Nemmeno voi, giornalisti, vi siete preoccupati di sentire l’altra campana. Che come vedete non suona ancora a morto. Perché io sono piùvivo di prima».
L’ipotesi della procura è che lei abbia costituito un sistema, come ci ha raccontato il prefetto Giuseppe Pecoraro, che ha consentito che diventasse il “monopolista” dei rifiuti nella Regione.
«Non l’ho creato io il monopolio. È il monopolio che si è portato a me».
Si spieghi meglio.
«Nessun altro mai ha presentato proposte alternative sui rifiuti, nessuno era in grado di farle. Noi e solo noi abbiamo salvato Roma e gestito al meglio la monnezza di una Capitale europea. Negli anni sono sempre andato dagli amministratori pubblici e ho offerto soluzioni per risolvere i problemi e a detta di tutti l’ho fatto in modo egregio. C’era solo il mio gruppo. Nessun altro si è presentato. Io sono in grado di offrire servizi al 50 per cento in meno rispetto a quello che si paga a Milano. Sfido tutti. L’ho detto ai magistrati che mi ninterrogavano, l’avevo detto anche al prefetto Pecoraro nel 2011, durante un incontro con il dirigente regionale Marotta. Fui chiamato a risolvere il caso Roma, perché a Malagrotta erano esaurite le volumetrie e nel corso degli anni nessuno si era preoccupato di trovare un sito di riserva. Pecoraro mi chiese: “Allora avvocato, che si fa?”. Risposi che c’era una cosa sola da fare: recuperare sui 120 ettari di Malagrotta le volumetrie necessarie ad affrontare l’emergenza. Così accesi i motori dei miei 57 mostri Caterpillar, lavorammo dal 10 settembre 2011 fino all’8 dicembre e facemmo il miracolo grazie anche al Padreterno che non fece piovere un solo giorno. Così abbiamo recuperato volumetrie per 1 milione e 280mila metri cubi. A Natale ci incontrammo di nuovo. Durante quella riunione ci è stato detto che Roma era salva e Pecoraro aggiunse, rivolgendosi a me: “Ancora una volta Roma si salva grazie a lei”».
In quei mesi la Capitale era anche nel mirino dell’Europa.
«Esatto. Il 6 giugno di quell’anno l’Europa aveva contestato a Roma gravi irregolarità. Secondo la Commissione europea si portavano a Malagrotta rifiuti non trattati, mentre la legge europea proibiva fin dal 2007 il conferimento del tal quale in discarica. Ci dissero che eravamo fuori legge, in infrazione. Bisognava fare in modo che a Malagrotta fossero conferiti rifiuti trattati, ma per far questo c’era bisogno di quelle volumetrie. La Regione, di fronte alle richieste dell’Europa, si mise in allarme. Sapevano che Malagrotta stava per esauristi. Allora abbiamo proposto Quadro Alto, Pian dell’Olmo e Monti dell’Ortaccio».
Prenda fiato, avvocato. Parliamo dei regali ai politici?
«(sorride) Ma si, parliamone».
A leggere gli atti di procura distribuiva cadeaux importanti a tanti, diremmo quasi tutti, i politici di Roma e del circondario.
«Ho sempre detto che non sono un benefattore, su questo non ci sono dubbi. Mi sento più un missionario, sono generoso, io. I regali…Sì, ne ho sempre fatti, e allora? Li fanno tutti, solo per me sono una forma di corruzione? Ricordo di un giorno, all’Eur, al bar Palombini. Era passato Natale. Mi si avvicina un dipendente e sottovoce, segretamente, mi dice “Avvoca’, è venuta la finanza e ha sequestrato la nota dei regali».
Bella lunga la lista…
«Ogni anno mandavo una bottiglia di champagne al sindaco, a presidenti, ai politici».
Molti politici hanno detto di averglieli rispediti indietro?
«(risata fragorosa). La verità? Un solo regalo è tornato indietro, ed è un regalo che inviai alla dottoressa Pompa, che aveva sostituto Marotta alla Regione. Il resto della classe politica ha brindato grazie a me».
Sempre dalle carte e dalle intercettazioni emerge un suo fitto rapporto con la politica.
«E a chi altro avrebbero dovuto rivolgersi per risolvere i guai che loro producevano? Quello che ho fatto io in questo settore, ripeto, è imparadigmabile. Provate a trovare un altro nel mondo, un altro imprenditore dei rifiuti che abbia smaltito quello che l’Italia produce in cinque anni, cioè 150 milioni di tonnellate. Lo spazio per il business me lo sono creato da solo, perché trattare rifiuti è sempre stato il mio mestiere. Ho avuto rapporti con tutti, presidenti, ministri, assessori, consiglieri, erano loro che non potevano dire di “no” alle mie proposte. Erano loro che mi chiedevano di trovare soluzioni alternative, erano loro che mi dovevano pagare, non io pagare loro».
Quanti soldi ha investito nelle campagne elettorali? Dica la verità…
«Ho investito quello che dovevo, che potevo, ma che ne so. E comunque tutto quello che ho dato ai politici è rendicontato al centesimo. Mai un soldo in nero, insisto, mai. Scrivetelo grosso: MAI. Però, caso strano, dalle indagini è uscito solo l’episodio dell’ex ministro all’ambiente, come si chiamava?».

Ronchi?
«Ecco sì, Ronchi. Perché è venuto alla luce solo e soltanto quel contributo?»
Lei ha aiutato tutti i politici di tutti i partiti?
«Tutti i partiti».
Anche il Pd?
«Anche se un tempo si chiamava in altro modo. Anche il Pd, tutti».
Con i sindaci come sta messo?
«Bene con tutti».
Tutti e 33?
«Più o meno».
Chi è stato il miglior sindaco di Roma?
«Il migliore Rutelli, che all’inizio mi ha fatto la guerra, poi si è documentato, ha capito, e ha cambiato idea».

Alemanno, invece?
«Non l’ho neanche votato».

 

Diceva che la politica, quando scoppia l’inchiesta, le gira le spalle.

«Verissimo. Improvvisamente sordi, muti, ciechi. Destra e sinistra scompaiono dalla mia vita».
C’è un politico che alla luce del sole le ha sempre fatto la guerra?
«Vetere, ma con una chiara onestà intellettuale».
E gli ambientalisti?
«Gli ambientalisti, mah. In principio mi sono stati addosso, tutti contro, fino a quando non mi hanno conosciuto. Ricordo i braccio di ferro con Realacci, poi pure con Mario Di Carlo. Nel 1986 li ho trovati seduti su Malagrotta che dicevano “adesso ti facciamo vedere noi, ndo vai, sui nostri corpi devi passare”. Dopodiché, pure loro hanno capito. Io con Di Carlo, il comunista, alla fine ci sono diventato pure amico».
Ci perdoni l’insistenza. Ma quel ronzio del complotto ci torna sempre in mente. Pensa di essere stato vittima di altre trame in passato?
«Vi confesso una cosa: nel 1973 sono stato investito da uno tsunami più grosso di questo».
Addirittura?
«Tale Gelli da Arezzo, Villa Wanda, vi dice qualcosa?».
Licio, il venerabile a capo della Loggia P2. Dopo il complotto la massoneria deviata? Su Cerroni…
«Fatemi parlare, siete i soliti giornalisti».
Prego.
«Una mattina vennero 36 finanzieri e sequestrarono tutti i bilanci degli impianti di Rocca Cencia. Dissero che Amerigo Petrucci (ex sindaco di Roma, ndr), che vinse il congresso con Andreotti, era sponsorizzato dal sottoscritto e che dunque Cerroni poteva tutto. Così avviarono la pratica per distruggermi e si inventarono la storia che io raddoppiavo i pesi, le tonnellate, dei rifiuti. Vennero il 3 settembre e andarono via il giovedì santo del 1974. Spulciarono dappertutto ma non trovarono nulla, però provarono a rovinarmi in ogni modo. Nitto Palma, il pm di allora, quello che oggi fa il deputato col Pdl, alla fine dovette arrendersi perché quando la Guardia di Finanza accertò che ogni lira era al suo posto e nessun inghippo era stato fatto, capii come stavano le cose».
Andò tutto bene, al contrario di oggi.
«Sì, ma i sistemi sono gli stessi, si ripetono, quando ti vogliono rovinare fanno di tutto. All’epoca mi dissero: lei non si droga, non sniffa, fa una vita monastica. Se solo avessi avuto un vizio sarebbe stato ingigantito e per me sarebbe stata a la fine».
Senta Cerroni, lei parla di «complotto» ma ci gira intorno. Dice e non dice.
«Sentite, cari ragazzi. Il complotto c’è ed è comprovato. Però se proprio volete saperne di più, prendiamoci un caffè, che il discorso è lungo e tocca argomenti delicati. Vogliamo cominciare con l’Acea?».