RADICALI ROMA

Invece della guerra

Ora è chiaro e documentato, dunque storicamente vero: Saddam Hussein stava per andarsene. Aveva accettato di lasciare il potere e di scomparire in esilio. Voleva una buona uscita esosa (un miliardo di dollari). Ma non c’erano bombe, non c’erano morti iracheni (decine, forse centinaia di migliaia), non c’erano morti americani (al momento quasi quattromila) non c’erano trentaduemila giovani americani feriti, molti dei quali non torneranno più alla vita di tutti. Non c’era il costo immenso di una guerra che non finisce.

Per capire di cosa sto parlando (giornali e Tv sfiorano appena l’argomento) occorre tornare ai giorni di incubo e tensione che hanno preceduto la guerra in Iraq. Da un lato il vento furioso della Casa Bianca di Bush, del febbrile interventismo di Tony Blair, che, letteralmente «hanno fatto carte false» (hanno mentito su tutto) pur di fare la guerra.

Dall’altra due pacifismi avvinghiati, uno di passione, constatazione, buon senso (ormai hanno capito in tanti che la guerra non è più una risposta possibile, troppo costo, troppo sangue e – da quando esistono solo armate professionali – troppe poche persone disposte a morire); l’altro ideologico, contrario a tutte le guerre ma specialmente a una guerra americana.

All’improvviso (siamo nel 2003, a poche settimane dall’inferno iracheno che ancora non c’era, che veniva descritto come una guerra rapida e leggera e che ancora continua a bruciare) entra in scena un incompetente che non sa niente di guerra perché predica la non violenza, uno poco amato dalla sinistra perché si dichiara “americano” e dice agli uni e agli altri «Fermi tutti. Possiamo rimuovere Saddam senza combattere». Sto parlando di Marco Pannella. «È la tipica presunzione del leader radicale che sa sempre, da solo, come salvare il mondo», si è detto e scritto con irritazione da una parte e dall’altra, a quel tempo. Noi, qui, all’Unità gli abbiamo creduto. E abbiamo subito spiegato perché. Perché la pace non arriva come risposta a una invocazione ma come frutto di un lavoro. Perché la proposta di Pannella ricordava a qualcuno di noi l’impegno costante, a momenti disperato ma mai rinunciatario, contro la pena di morte negli Stati Uniti: un caso per volta, ogni percorso di salvezza continuamente tentato, finché ne salvi uno, finché ne salvi quasi la metà, finché riesci a mettere in discussione un tipo di esecuzione (l’iniezione letale) di fronte alla Corte Suprema (benché quella Corte sia di destra e favorevole alla pena di morte); finché riesci a ottenere la moratoria, già proclamata in alcuni Stati americani e che adesso sta per essere approvata all’Onu, per tutto il mondo. Una proposta italiana che onora il nostro Paese e che è nata da una di quelle campagne ossessive e, all’inizio, solitarie e col tormentone del digiuno, di Marco Pannella.Ricorderete che molti deputati e molti senatori italiani avevano detto sì al progetto di rimuovere un dittatore senza mettere a ferro e fuoco un Paese. Ricorderete che ha vinto uno scetticismo venato anche un po’ di irrisione e ridicolo: figuriamoci se un dittatore va via senza la guerra.

Ora sappiamo tre cose che sarà bene non dimenticare. Sappiamo che la “proposta Pannella” era realistica proprio come noi, con lui, avevamo detto allora, irritando anche un po’ alcuni a sinistra nonostante il netto schieramento di pace (col segno arcobaleno nella testata) di questo giornale. Ora sappiamo che l’audace, avventurosa, “impossibile” trama diplomatica era andata a buon fine, fino al punto finale: pagare e liberarsi del tiranno. Lo sappiamo dal diario di Aznar. E sappiamo che i Berlusconi e gli Aznar che hanno detto di sì a quella guerra lo hanno fatto per compiacere l’amico potente pur sapendo che quella carneficina si poteva evitare. Una bella responsabilità nella Storia.

Pannella ricorda nel suo comunicato che tra tutti i giornali, solo l’Unità ci ha creduto. Noi ne siamo orgogliosi e lo ringraziamo. Non della citazione ma dell’impegno, quasi riuscito, di non fare la guerra.