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"Invictus" di Clint Eastwood

I film popolari hanno a volte qualcosa in comune con una lezione scolastica. Una lezione tenuta a una classe con cui si deve faticare a tenere desta l’attenzione; a cui si deve spiegare tutto, senza confidare in tante conoscenze già acquisite; evidenziando con precisione i passaggi fondamentali di un racconto o di un ragionamento; e magari semplificando un po’ problemi complessi.

Clint Eastwood è un regista che ha fatto film originali e a tutti gli effetti d’autore. A volte è invece un maestro del cinema popolare. (Ma a scanso di equivoci: parlo di cinema popolare senza nessun sussiego, con pieno rispetto).

L’ultimo film di Clint Eastwood, “Invictus”, rientra in questa seconda categoria della sua produzione. E infatti ha qualcosa di una lezione. Una lezione su un tema storico: Nelson Mandela, neo-eletto presidente del Sudafrica, alle prese con un problema di politica interna, solo apparentemente marginale, e che, come vedremo, riguarda gli Springbox, la squadra nazionale di rugby del Sudafrica.

Ora, se da un punto di vista storico la lezione sia veritiera, non è argomento su cui debba pronunciarsi il critico cinematografico.

Ma la lezione di Eastwood ha anche un contenuto più generale: come dovrebbe essere governata una democrazia, in base a quali principi. E, di conseguenza, come dovrebbe essere, come dovrebbe agire un grande leader democratico.

Coerentemente con questa intenzione, il Nelson Mandela del film non è un personaggio realistico, con quei chiaroscuri cioè che ci danno il senso di un personaggio vero; è un leader ideale, tutta virtù, e per questo in piena luce, come certe icone di santi.

E’ un uomo reso saggio dalla sofferenza subita a lungo in carcere; che ama profondamente il suo paese e tutto il suo popolo; e per il bene comune non ha timore di prendere posizioni contrarie a quelle delle persone che più lo amano e dello stesso partito che lo sostiene.

In “Invictus” l’oggetto del contendere è, appunto, la squadra di rugby nazionale. I neri, per la prima volta al governo, vorrebbero scioglierla d’autorità, perché è una squadra composta quasi esclusivamente da bianchi, e per la quale i bianchi hanno sempre tifato. Ai loro occhi, è un simbolo dell’apartheid.

Ma Mandela interviene al congresso del suo partito per scongiurare quella decisione. Non sarebbe una meschina vendetta? Non agirebbero i neri proprio come i bianchi avrebbero supposto? Non fomenterebbero inutilmente l’odio dei bianchi?

E invece: se egli promuovesse quella squadra; ricevesse ufficialmente il capitano, con tutti gli onori; mandasse la squadra in giro per il paese, anche nei più poveri e nei più sperduti villaggi; assistesse alle partite allo stadio, non contribuirebbe a riconciliare un popolo diviso da decenni di politica di discriminazione?

E il film lascia intendere che se alla fine gli Springbox riuscirono a vincere la coppa del mondo (come accadde nel 1995), battendo la temibilissima squadra neozelandese degli All Blacks, fu perché la consapevolezza che tutto il paese, e non più soltanto una fazione, tifava per loro, gli diede lo slancio ideale necessario (“l’ispirazione”, viene detto nel film).

Troppa profusione di virtù avrebbe potuto riuscire stucchevole. E per scongiurare questo rischio, Eastwood è ricorso a varie risorse del suo notevolissimo mestiere. In “Invictus” c’è un certo umorismo (per esempio nel gruppo delle guardie del corpo di Mandela, bianchi e neri, costretti a convivere per decisione del presidente, in più occasioni, si punzecchiano a vicenda). E c’è la suspense, che caratterizza tutti i film sulle competizioni sportive, dove la vittoria finale degli eroi si fa attendere spasmodicamente, fino all’ultimo minuto.

Ma lo spettacolo è qui al servizio di una lezione. Una lezione, efficace e toccante, sulle virtù civili della tolleranza e del perdono.

Gianfranco Cercone