Io amo la vita, Presidente”. Queste semplici parole sono la mia personale chiave di lettura della lettera aperta inviata da Piergiorgio Welby al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Non è l’unica chiave di lettura possibile, ovviamente, ma è quella che preferisco perché consente di tematizzare una domanda fondamentale: di quale vita si tratta?
Piergiorgio non è un uomo che soffra di abbandono, è un uomo amorevolmente curato e che riceve dal suoi familiari tutta l’attenzione e il conforto umano e spirituale desiderabili in questi casi. E’ un uomo che, almeno fino a poco tempo fa, ha potuto avere una intensa vita di relazione, pur nella condizione della malattia e con l’aiuto della tecnologia. Ha studiato, ha scritto, ha trovato nell’impegno nell’associazione Luca Coscioni un nuovo senso alla sua vita e l’ha vissuto intensamente. Tacciano, quindi, i soliti Soloni che la sanno lunga e, anche in questa caso, hanno rispolverato la vecchia tesi che chi chiede di morire chiede, in realtà, di non essere abbandonato, di essere aiutato a trovare un senso alla sua vita. Piergiorgio l’ha trovato questo senso, stando a quanto scrive nella lettera, ma la malattia avanza e minaccia di privarlo anche di quel poca di vita “sensata” che ancora gli è possibIle. Che altro aiuto gli si vuol dare?
Egli chiede soltanto di poter restare padrone della sua vita, quella che si è costruito in questi anni adattandosi alle condizioni poste dalla malattia: è stato – mi si perdoni un po’ di retorica – in trincea finché ha potuto, onorando la vita col suo impegno culturale e politico. Ma ora desidera solo una onorevole via d’uscita. Piergiorgio sa bene – è triste doverlo dire – che il suo appello non sortirà effetti così immediati da essere utili alla sua situazione: come è già avvenuto, molti alzeranno il vessillo dei sacri principi della difesa dell avita (ma di quale vita?), ai quali sacrificare le persone reali, coi loro umani desideri, progetti e bisogni. Ma sarà già una grande vittoria se il suo appello farà avanzare anche il Italia la discussione sulle questioni etiche relative alla fine della vita umana nell’epoca della medicina tecnologica: dobbiamo batrerci affinché questa volta il dibattito non si esaurisca nel giro di pochi giorni, come purtroppo è già avvenuto in passato, magari per infiammarsi di nuovo al prossimo evento clamoroso. L’occasione per farlo esiste ed è la discussione sulla questione della legge sul testamento biologico. A quanto si dice, la Commissione Igiene e Sanità del Senato inizierà nei prossimi giorni le audizioni, al fine di poter presto andare in aula con un disegno di legge in materia: avremo tempo per discuterne in seguito nel merito, ma un punto deve essere subito sottolineato partendo dalla vicenda di Piergiorgio Welby.
Ancora sui giornali di questi giorni vi è stato chi ha posto un paletto insormontabile: il potere di disposizione della persona nei confronti dei trattamenti sanitari deve essere limitato ai trattamenti che possono diventare forme di accanimento terapeutico. Se prevarrà questa tesi, il testamento biologico sarà uno strumento pressoché inutile, perché certamente escluderà la possibilità di lasciare disposizioni concernenti quei trattamenti cosiddetti salvavita ai quali sono legati i casi tragici dei quali spesso si discute: si tratta dell’alimentazione e idratazione artificiali, oppure della ventilazione artificiale, ma – oserei dire – anche della trasfusione di sangue. Questi trattamenti non possono quasi mai diventare accanimento terapeutico, perché sono in grado di produrre il loro effetto biologico, quello appunto di “sostenere la vita” (ma ancora, di quale vita si tratta?): possono però diventare forme di accanimento tout court, sui valori e la persona del paziente.
Il problema che una legge sul testamento biologico dovrebbe affrontare non può essere quello di redigere una lista dei trattamenti ai quali è lecito o non lecito rinunciare, quanta invece quello di dar corpo al principio che ogni persona ha il diritto di decidere, anche in forma anticipata attraverso disposizioni scritte, se rinunciare o no a tutti quei trattamenti o interventi sui quali ha il diritto di decidere finché è consapevole. ll testamento biologico è una estensione del principio del consenso informato: se così è, allora qualcuno dovrebbe spiegare – nel caso prevalga la tesi restrittiva – per quale mai ragione io dovrei essere privato della possibilità di decidere in anticipo su qualcosa su cui ho diritto di decidere finché sono nella piena consapevolezza. Non sarà, per caso, che il formale omaggio da tutti (o quasi tutti) tributato al principio del consenso informato cerchi una specie di rivincita approfittando del fatto che la persona non è più in grado di esprimere la sua volontà?