Nella rubrica della settimana scorsa (“Repubblica” del 4 us) ho espresso qualche riserva su un articolo di Adriano Sofri che suggeriva ad Israele un disarmo nucleare unilaterale. Lo spazio non mi aveva consentito di affrontare un altro tema caro all’autore, anche se sconsolatamente definito “un sogno ad occhi aperti”, quale l’ingresso di Israele nel l’Unione europea, rilanciato anche da Marco Pannella. Pessimismo motivato ma, per una volta tanto, mi sia consentito metterlo da parte tornando ad affrontare la proposta di Sofri. Lungimirante, ma solo a metà, come già altre volte avevo cercato di spiegare. Di essa, infatti, Sofri aveva gia scritto in passato e il sottoscritto gli aveva nell’occasione risposto (v. “Repubblica” del 12, 18 e 30 giugno 2001). All’incirca nella stessa epoca Marco Pannella in Italia e l’ambasciatore di Clinton all’Onu, Richard Holbrooke, avevano caldeggiato la prospettiva dell’adesione di Israele all’Ue. Da allora la discussione non ha fatto passi avanti, come, del resto, tutte le tematiche di quello che un tempo veniva definito il processo di pace.
Se, però, riflettiamo sulla caratteristica inedita della tregua in Libano e, cioé, il ritorno massiccio anche se sotto le insegne dell’Onu dell’Europa in Medio Oriente, con un peso inusitato dell’Italia, che oggi ha probabilmente il governo più europeista dell’Ue, allora non sembra del tutto illusorio riproporre una soluzione a lunga scadenza quale quella sollevata da Sofri. Sempre che venga concepita in un ambito che includa anche il futuro Stato di Palestina, senza di che finirebbe per risolversi in una provocazione negativa e pericolosa. Guai, infatti, se essa venisse percepita come una iniziativa per assimilare e garantire la democrazia israeliana, innestandola nel contesto delle democrazie occidentali. Se così fosse l’alterità di Israele nei confronti del mondo islamico che la circonda ne risulterebbe addirittura istituzionalizzata e ne uscirebbe internazionalmente confermato il paragone ricorrente nella propaganda araba, secondo cui “l’invasione coloniale” ebraica è destinata a finire come quella dei crociati che sognarono di aver riconquistato il sepolcro di Cristo ma dopo 120 anni furono costretti a lasciare di nuovo il passo alla Mezzaluna.
No, la speranza di sicurezza e di pace a luogo termine è che la compresenza inscindibile di arabi e ebrei in due Stati distinti venga sempre più metabolizzata dagli abitanti di quel breve tratto di Terra consacrata per gli uni e per gli altri, come una realtà geopolitica, con una propria radice storica e religiosa, non riconducibile solo alla Shoah. Per questo ogni passo che disegni Israele come un “pezzo” di Occidente e di modernità ,”all’americana” inserito a forza nell’universo musulmano scatenerà sempre più incontrollabili pulsioni di rigetto. Di contro la scommessa ardua di una accettazione, non solo garantita dalle armi e dagli strumenti della diplomazia, ma che risieda nella sedimentata tolleranza fra vicini “naturali” passerà attraverso la capacita dello Stato degli ebrei di autodefinirsi, ad un tempo, come la più avanzata, libera e democratica realtà mediorientale, ma anche come l’erede di una storia biblica plurimillenaria, portatrice di una tradizione che non si conclude nell’intellighentia laica aschenazita di marchio europeo orientale, ma si vivifica quotidianamente nel recupero della cultura sefardita, le cui radici risalgono alla contaminazione felice del misticismo di Maimonide e dei filosofi musulmani al tempo del califfato di Granada. Infine il luogo cammino per superare l’odio reciproco, che sente la presenza dell’altro non solo come una lesione nazionale ma soprattutto come un sacrilegio, non potrà che passare se passerà per un percorso in grado di riproporre e rivedere il valore simbolico fondativo di quel momento biblico che vide i due figli di Abramo, ma di due madri diverse, Isacco e Ismaele, dare origine ai due popoli del Libro, fratelli nemici. Il dialogo ebraico cattolico dopo duemila anni di persecuzioni e anatemi, prova quanto un analogo cammino sia difficile ma anche possibile.
E’ in questo contesto religioso, storico, culturale e politico che la adesione dei due Stati all’Ue si colloca e consentirebbe all’Europa di assumere, ben al di là dei caschi blu una piena responsabilità per la pace in Medio Oriente e il futuro politico, civile ed economico della regione. Oltre a ritrovare una grande funzione l’Europa pagherebbe il suo debito storico verso gli ebrei ma anche verso i palestinesi.