RADICALI ROMA

“Katyn” di Andrzej Wajda: un caso di censura?

“Katyn” di Andrzej Wajda: un caso di censura?

 

 

di Gianfranco Cercone

 

 

“Katyn” di Wajda – uno dei maestri del cinema polacco –  ha un paradossale destino.

Emblema del film è forse il taccuino di un soldato polacco, fatto prigioniero, insieme a tanti suoi commilitoni, dai soldati sovietici, durante l’invasione della Polonia nel 1939. Egli vi annota giorno per giorno quello che gli accade, perché, dice, non si perda memoria dei fatti storici che gli occorrono.

E’ un taccuino che sarebbe destinato a finire disperso o secretato, dopo che il soldato viene trucidato a Katyn insieme a migliaia di altri soldati e civili polacchi; e che invece, in seguito a circostanze romanzesche, viene riconsegnato alla moglie del soldato.

Allo stesso modo, il film di Wajda vorrebbe tramandare la memoria di quella tragedia; e anche rendere giustizia alle vittime, additando i veri colpevoli dell’eccidio: i soldati di Stalin.

Eppure rischia di non raggiungere i suoi destinatari.

Coprodotto dalla televisione polacca, sta incontrando, a quanto pare, notevoli difficoltà di distribuzione, non soltanto in Italia, ma in tutta Europa.

Come mai?

Il primo sospetto è che sul suo destino pesi la stessa censura che per tanto tempo ha pesato sull’eccidio di Katyn; eccidio che, dopo la rottura dell’accordo politico tra Stalin ed Hitler, i soldati sovietici hanno cercato di attribuire ai nazisti. Una censura che nel film è resa attraverso un’immagine simbolica: un’enorme massa di terra sollevata da una ruspa, destinata a ricoprire i cadaveri dei soldati polacchi, allineati nella fossa comune.

(Così come è evidentemente simbolico il dettaglio del pugno di uno dei cadaveri, che stringe un rosario, e che per qualche momento svetta sulla terra che sta per ricoprirlo. E la fede cattolica, in questo film, come in altre opere dei registi dell’Europa dell’Est, sotto i regimi comunisti, ha un valore di protesta politica, forse più ancora che di speranza in una giustizia futura).

Ma “Katyn” non ha soltanto un valore storico. Chi riuscirà a vederlo, potrà apprezzare la bravura degli attori, l’accuratezza con cui sono descritte le numerose scene corali, l’efficacia con cui sono suggerite le emozioni e i dissidi interiori dei personaggi: in primo luogo lo sconcerto della popolazione polacca quando subisce un attacco simultaneo dall’esercito sovietico e dall’esercito tedesco; ma poi, soprattutto, dopo l’eccidio, il dilemma morale dei sopravvissuti e dei loro congiunti: avallare la versione ufficiale dei sovietici? Oppure rischiare la vita per testimoniare la verità?

Ogni personaggio incarna, rispetto a tale problema, un atteggiamento tipico (con qualche rischio di schematicità): c’è il soldato che si vende, ma è torturato dal senso di colpa; c’è il ribelle impulsivo; la donna rassegnata; un’altra fiera e impavida; un’altra ancora che, sull’esempio di Antigone, si immola per assicurare al fratello una giusta sepoltura: con una lapide che descriva nei giusti termini le circostanze della sua morte.

La pagina più bella del film è quella che ricostruisce la dinamica dell’eccidio (posta, sapientemente, in conclusione, dopo che tutto il racconto vi ha alluso): con il contrasto tra l’angoscia – e la speranza – dei singoli prigionieri che vengono trasportati verso una destinazione a loro ignota; e, dalla parte dei carnefici, la brutale, sbrigativa efficienza con cui sono realizzate le esecuzioni seriali.

E’ difficile, insomma, sostenere che “Katyn” (meritoriamente distribuito dalla Movimento Film) sia stato male accolto dagli esercenti italiani, perché di scarsa qualità. Certo, pesa il disinteresse delle nuove generazioni, lamentato dallo stesso Wajda anche in Polonia, per i fatti rievocati dal film. E pesa anche che il film, quei fatti, non li spettacolarizza alla maniera di un film hollywoodiano.

E tuttavia, non credo che la questione possa essere liquidata così.

Ricordo un’altra vicenda della distribuzione italiana; e lascio alla valutazione del lettore se possa, in qualche misura, illuminare il caso di “Katyn”.

Un grande regista russo, Alexandr Sokurov, ha realizzato, pochi anni fa, una trilogia dedicata ai tiranni del Novecento, tutta incentrata sul binomio di potere assoluto e follia. Ne è uscito in Italia il primo atto, dedicato ad Hitler (intitolato: “Moloch”); il terzo atto, dedicato all’ultimo imperatore del Giappone, Hirohito (intitolato: “Il sole”). Ma, sarà un caso, non è uscito il secondo atto, intitolato “Taurus”, e dedicato a Lenin.

 

 

 

N. B. : Nell’ultimo romanzo di Cristina Comencini, intitolato “L’illusione del bene” (edito da Feltrinelli), e che evidenzia la difficoltà dei comunisti e degli ex-comunisti a confrontarsi apertamente con la storia del comunismo, si legge la seguente considerazione:  “Un mio amico regista ha girato una fiction su una fuga rocambolesca da un paese dell’Est durante gli anni Cinquanta. Un bel film, toccante, ben fatto. Per tutta la durata del racconto, il comunismo non viene mai nominato”.