RADICALI ROMA

l collezionista di case e poltrone.

Senza mai un guizzo, Franco Marini è approdato alla seconda carica delle Stato. Non gli siamo debitori di un’idea, non ci ha folgorato con frasi memorabili. Si è limitato a correre per sé, lasciandoci in pace. Gliene siamo grati. Resta il problema – tutto in­tellettuale – di sapere come accidenti si fa con così poco a diventare presidenti del Senato, essere da un anno candidato premier al posto dello stantio Prodi, stare al centro dei giochi più di un Giolitti.

Per verificare quanto sia trito questo settantaquattrenne de di vecchia scuola, basta che apra bocca. Per lui la famiglia è il nerbo del­la società, l’impresa il vola­no dell’economia, l’Italia il Belpaese, i giovani il futuro, i vecchi una risorsa. Alla re­cente Conferenza sul clima si è allineato al catastrofi­smo dei Pecoraro Scanìo di­cendo: «In agosto, nel Sud Europa c’erano gli incendi e il Nord era soggetto a piog­ge di notevole portata». Un’ovvietà dall’età della pie­tra. Semmai, avrebbe allar­mato l’inverso. In un empi­to di originalità ha poi ag­giunto che «il clima è un problema globale» da affrontare «con razionalità lu­cida e un’azione politica co­stante». Non una parola di più per non sbilanciarsi, ma retorica a palate per strap­pare l’applauso.

Nelle cose politiche Mari­ni ha un solo desiderio: rico­stituire il centro cattolico. Sul resto è ondivago. In gen­naio, inneggiò al bipolari­smo che «ha assicurato sta­bilità al Paese ed è entrato nel cuore degli italiani». In primavera, cogliendo al vo­lo la catalessi di Romano Prodi, era pronto a buttare il bipolarismo alle prime or­tiche che spuntavano nei campi. «Va smantellata la capanna dell’Unione», ha dichiarato menando un fen­dente a sinistra. Poi ha striz­zato in direzione di Pierferdy Casini l’occhio azzurro e, aprendo all’Udc, ha cer­cato di scompaginare la de­stra. Ora, va pescando in al­tri lidi. Ibernata la rinascita della Dc, si concentra sul­l’organigramma del futuro Partito democratico. Lo sto­rico compito che Franco si prefigge è di fare occupare ai residuati del Ppi – i De Mita, le Bindi, i Mattarella, ecc. – il 30 per cento del viagra generico online Pd veltroniano. Spartire poltro­ne e difenderne i privilegi – come ha fatto con la gita di piacere di Mastella sul jet di Stato – è il suo più alto idea­le politico.

Nelle cose pratiche, Mari­ni è maestro. Dalle crona­che abbiamo appreso che – partendo da zero – in mezzo secolo di attività ha accumu­lato 28 proprietà, costituen­do addirittura un fondo immobiliare come fosse la Gabetti spa. Al centro di que­sta costellazione di case e terreni, c’è il suo capolavo­ro: l’appartamento di 14 stanze ai Parioli, il quartie­re romano delle Ambascia­te. Lo ha pagato due miliar­di di vecchie lire, ma ne vale sette. Roba da mago Houdini. Cosa ci faccia con 14 va­ni non avendo più l’età per sfrecciare sui pattini a rotel­le, non è affar nostro. Ma re­sta il quesito, sapendo che i Marini sono solo tre: mari­to, moglie e un figlio. I 350 metri quadrati di casa a cui badare spiegano forse an­che la discrezione della first lady sua consorte, donna Luisa. Contrariamente a donna Lella Bertinotti, sua omologa di Montecitorio, la signora Marini infatti non si vede, non si sente, non rila­scia interviste. Probabil­mente è sfiancata dalle fac­cende domestiche. È il drammatico rovescio della medaglia di chi possiede una batteria di immobili.

Il nostro opulento presi­dente del Senato è il primo di sette figli di un operaio della Snia Viscosa. Ha tra­scorso l’adolescenza nella natia San Pio delle Camere, villaggio sui monti marsicani, primatista europeo nella raccolta dello zafferano. La parrocchia è stata l’incuba­trice della sua bella carrie­ra. Lì ha dato i primi calci al pallone e si è attaccato alle sottane dei curati. Si è iscrit­to all’Azione cattolica, alle Acli e, a 23 anni dopo la lau­rea in Legge, alla Cisl, il sindacato della Dc. Nella Confe­derazione ha tra­scorso 40 anni fi­no a diventarne segretario gene­rale.

Ai suoi debutti, padre padrone della Cisl era Giu­lio Pastore, mag­giorente dc. Pa­store aveva due pupilli, Vincenzo Scotti e Marini. Scotti traslocò pe­rò presto nella Dc, abbrac­ciando la politica a tempo pieno. Franco invece tenne i piedi in due staffe. Uno nel sindacato, per farci carrie­ra, e uno nella corrente dc Forze Nuove di Carlo Donat Cattin, per tenersi una por­ta aperta. Scotti chiese più volte all’amico di gioventù i voti cislini per diventare se­gretario del partito. Franco però, intuendo che l’ex col­lega non ce l’avrebbe fatta, dirottò quei voti su Donat Cattin, leader più solido. Perse l’amicizia dell’uno e guadagnò quella dell’altro. Fu il suo debutto come imbattibile calcolatore ed esi­mio docente nell’arte di mettersi all’ombra di un ca­po per raccoglierne a tem­po debito l’eredità.

Intanto, avanzava nella Ci­sl. Non però nel settore in­dustriale – la vera gavetta sindacale -, ma nel parasta­to. I colletti bianchi, tradi­zionalmente dc, gli erano più congeniali delle teste calde metalmeccaniche. In questi panni moderati, Marini divenne alla fine degli anni ’70 il vice del segreta­rio generale, Pierre Carniti, un laico radicale. Il sinistri­smo carnitiano ricevette pe­rò una brutta botta con la crisi Fiat del 1980. Con la «marcia dei quarantamila» quadri, stufi delle occupazioni operaie, Pierre dovet­te calmare i propri eccessi. Ma, divenuto più cauto, su­bì le minacce degli estremi­sti. Cominciò allora a sco­raggiarsi e Marini, senten­do che si avviava al tramon­to, si fece avanti premuroso per raccoglierne l’eredità. «Tranquillo. Farò un servi­zio d’ordine coi miei del pa­rastato e ti proteggerò», dis­se il vice al suo capo. Carniti accettò e si mise nelle mani dell’altro. Così quando, nel 1985, Pierre si ritirò logora­to, Franco si trovava nel po­sto giusto per subentrargli. Diresse la Cisl per cinque anni, fino al ’90, lasciando poi la segreteria a Sergio D’Antoni, sua creatura.

Marini uscì dal sindacato perché, con lo stesso copio­ne di sempre, il destino gli offriva l’opportunità di farsi strada nella Dc. Donat Cattin, il suo leader di corren­te, era malato. Sentendosi prossimo alla fine convocò gli amici a Saint Vincent e all’improvviso disse: «Approvo le idee di Marini», quasi in un ideale passag­gio del testimone. Una sibil­lina designazione che si ri­velò preziosa quando, sei mesi dopo, Donat morì e si aprì la successione in Forze Nuove. Due erano i candida­ti, Marini e Sandro Fonta­na, fedelissimo di Donat. Marini, per reclamizzarsi, si attaccò al telefono e ricor­dò a tutti il fatidico inciso del defunto sul «passaggio del testimone». Prima del voto, e sempre in base a quella frase, si schierò con lui la vedova signora Amalia, decidendo le sorti della riffa. Marini raccolse così l’ennesima eredità e suben­trò al morto nella guida del­la corrente e sulla poltrona di mini­stro del Lavo­ro.

Ormai poli­tico a tempo pieno, il pri­mo passo fu candidarsi in Parlamento nel ’92. Scelse il collegio di Roma, contro un altro dc, Vittorio Sbardella, detto «Lo Squalo». Andreotti – ormai sena­tore a vita – cedette a Mari­ni i suoi voti ai quali si ag­giunsero quelli della Cisl, propiziati da D’Antoni. Franco vinse. Ci fu una fe­sta nella sede cislina e D’An­toni, che è siciliano e conta­va amici tra i pescatori di Mazara del Vallo, si procu­rò una mascella di squalo e la donò a Marini come scal­po della vittoria.

Erano però gli anni di Tangentopoli e, tra il ’92 e il ’94, anche Franco entrò nel mi­rino dei giudici. Fu accusa­to di avere speso soldi extra bilancio per la campagna elettorale, di finanziamento illegale di Forze Nuove, di concussione per avere fatto versare a un imprenditore cento milioni al settimanale ciellino Saba­to. Ma, su preghiera di ami­ci, intervennero i rappresentanti della
sinistra giudi­ziaria in Parlamento e le im­putazioni caddero.

Dopo un anno alla guida di Forze Nuove, Marini liqui­dò la corrente. Contempora­neamente era morta la Dc, sostituita dal Ppi. Franco aderì al nuovo partito guida­to da Martinazzoli, diventandone un deus ex machina. Defenestrato per incapa­cità Martinazzoli, Marini si schierò con Rocco Ruttiglione trasformandosi nella sua ombra per diventarne, con la solita tecnica, l’erede all’ora X. La sera prima di silurarlo fu invitato da Buttiglione in casa. Alla moglie, Pia, preoccupatissima, dis­se: «Non farò mai del male a Rocco». Il giorno dopo gli votò contro. Per decenza, non prese subito la segrete­ria che andò a Gerardo Bianco. Ma sei mesi dopo, al suo posto c’era già lui. In un paio d’anni, portò il partito al minimo storico – quattro per cento – lasciandolo nelle mani di Pierluigi Castagnetti che lo seppellì. Insieme, fi­nirono nella Margherita do­ve allignano tuttora.

Da allora, vive beato sen­za scocciature badando so­lo alle sue poltrone. In un quindicennio ha accumula­to cinque scranni in Parla­mento, un seggio a Strasburgo e 350 mq ai Parioli. Dall’anno scorso, ha il tro­no al Senato. Ma temo forte­mente di non avere risposto al quesito del perché ci sie­da uno come lui.