Il Centro è tutto, il cardinal Ruini, il leggendario «voto cattolico», l’Udeur che dice «nel centro c’è la linea di Aldo Moro», l’Udc che fa lo spot elettorale «io c’entro», il centro modernizzatore di Mario Monti o quello piacione di Rutelli e Pier Ferdi Casini, forse è persino Fassino che si svela credente e insomma, un campionario di dichiarazioni di fede velleità fughe in avanti e, a volte, pure all’indietro. In ogni caso: misurarlo è difficile, va’ a sapere dove tutto questo vada a parare «nel segreto dell’urna».
Il Centro in Italia è in linea di massima voto cattolico, spiega Ilvo Diamanti. «Il fatto è che la Chiesa non sposta più voti, è una delle poche cose su cui gli studi concordano. Ai leader politici, dunque, esibire posizioni filo-cattoliche serve ad accreditarsi come moderati in genere, più che come cattolici». E allora ci risiamo: il Centro. Può arrivare al quaranta per cento dell’elettorato (secondo Tito Boeri, al trenta (è la stima di Luca Ricolfi), al trenta-quaranta (secondo Giovanni Sartori), al trentacinque (secondo Diamanti), al sessantacinque per cento, sogna il rifondatore democristiano Gianfranco Rotondi. Tolta come si capisce l’ultima stima, il punto di partenza più o meno è condiviso. Poi tutto si fa complesso, complice la materia doro-morotea, e la storia di un decennio travagliato, che ha fatto del Centro leggenda.
Lamberto Dini se lo sognava «terza gamba dell’Ulivo», Clemente Mastella a inizio estate davanti alla piscina ceppaloniana («non è a forma di cozza, scrivetelo, guagliò») profetizzava «vedrete che da qui al 2006 sempre più gente correrà dietro ai voti cattolici», Sergio D’Antoni li sta cercando da un decennio e ancora non li ha trovati. Più che probabile che abbia ragione un bipolarista convinto come Giovanni Sartori: «Nel 2006 vince appunto chi conquista questo elettorato di centro», Ecco: ma chi, conquistare?
Secondo Marco Follini «il centro cattolico non si misura dai leader che schiera. Si caratterizza per la politica che fa». Ma per fare una politica nell’era del marketing bisogna innanzitutto capire a chi orientarla. A detta di Tito Boeri, che lo ha scritto su lavoce.info, «il centro cattolico è vivo e vegeto. Al centro, comunque lo si definisca, c’è la maggiore concentrazione di persone: tra un quarto e un terzo degli intervistati si colloca in queste classi». Ma è una stima su cui Diamanti ha molto da obiettare: «L’identificazione del Centro come pura area geografica tra destra e sinistra non coglie importanti sfumature». In pratica mette nello stesso calderone del presunto «voto cattolico» cose diverse, «sia i centristi convinti, gente che però sa già se votare centrodestra o centrosinistra, sia i cosiddetti “non-allineati” o “non-schierati”, per lo più cattolici anche loro, ma fluttuanti, spesso non praticanti, che si dicono di centro perché non si sentono di destra nè di sinistra». Non li orienta la Chiesa; ma per conquistarli bisogna apparire moderati. «Quel serbatoio vale grosso modo il 25 per cento; mentre i centristi convinti, che non si fanno drenare o orientare ma sanno benissimo quale partito scegliere, sono il 10 per cento dell’elettorato».
Ora, da chi è composto questo venticinque per cento di presunto voto cattolico non-allineato? «Gli insofferenti, gli insoddisfatti, i disincantati», dice Diamanti. «I democristiani delusi dai due poli», direbbe semplicemente Cirino Pomicino, non per caso era ancora in ospedale convalescente dopo l’attacco di cuore, anno 1997, quando a Di Pietro che era andato a trovarlo disse, togliendosi la maschera d’ossigeno: «Rifaremo il Centro». Una fissazione più che una missione politica. Un mito. Il voto cattolico.
Il punto è come conquistarlo, questo spicchio di ontologia politica premoderna resuscitata dalla tarda modernità: chi sono i votanti cattolici da ghermire? Secondo Diamanti «vivono più al sud che al nord. Hanno un livello di istruzione medio basso, a differenza dei centristi convinti, che ce l’hanno medio-alto. Occupano una posizione periferica nel mercato del lavoro». Li si conquista in modi diversi: «Aggredendo la fetta di mercato, ma soprattutto blandendoli». Emilio Fede ha pensato di conquistarli televisivamente. E nato persino un «Sudoku del Centro».
Il tema piace, incide, nevrotizza, anche. Massimo D’Alema ritiene che «un terzo polo che si colloca nella sfida tra noi e la Casa delle Libertà può aspirare al massimo al 12 per cento, ed è una previsione dello stesso Mastella». «Se parliamo di un partito di Centro», ragiona Sartori, «è vero, è un’entità mitologica che non si sa neanche bene cosa possa essere». Se invece parliamo dell’elettorato cattolico o centrista, «la stima di D’Alema è farlocca, quell’ elettorato vale un trentacinque-quaranta per cento». Al vecchio Vanni non interessa tanto frugare se lì dentro ci siano anche elettori che hanno già deciso per chi votare: «Di sicuro in quel segmento un’ amplissima parte sono voti tecnicamente ‘oscillanti’». Li si può catturare «elargendo prebende, ma anche demonizzando l’avversario», se è vero, come assicura, che la demonizzazione non spaventa affatto i moderati: gli Stati Uniti insegnano.
Nella corsa affannosa c’è anche chi, come Luca Ricolfi, propone di cambiare dicotomia, e anziché quella tra elettori moderati (cattolici) e radicali vorrebbe una tra «scongelatori» e «congelatori» del sistema: un asse trasversale in cui dalla parte della modernizzazione finirebbe, per esempio, il centro di Monti «ma anche un partito come la Lega»; mentre dalla parte del congelamento e del «partito della spesa» «finirebbero ampi settori del centro cattolico, stile Udc». Col che si torna al punto di partenza: cos’è ontologicamente il voto cattolico?
Sartori taglia corto, «sappiamo quanti sono, sappiamo che sono indecisi e tendenzialmente moderati, qui non ci importa se siano poi animali bipedi implumi, o cos’altro». E magari ha ragione Ciriaco De Mita, che sa di cosa parla, «il centro cattolico è un modo di governare». Ma c’è chi ritiene sia anche un deposito di voti, un terreno di caccia, un territorio arcano della più smaccata metafisica. L’araba fenice della politica italiana.