RADICALI ROMA

La logica del record. Come e perché questa narrazione è deleteria nell’analisi dei suicidi in carcere

di lorenzo iorianni

Jorge Luis Borges in vita sua scrisse molti racconti.

Qualche giorno fa, mentre camminavo per strada, ho ricevuto un messaggio che mi ha fatto pensare a uno di essi; si intitola Avelino Arredondo ed è contenuto ne Il libro di sabbia. È una storia di reclusione volontaria, ferrea autodisciplina e – in definitiva – regicidio (anche se nessun re viene ucciso).

La ragione per cui ho immediatamente connesso i due fatti è una frase, che pare apposta in modo casuale all’interno del discorso, ma che è gravida di significato: “Avido lettore di giornali, fece fatica a rinunciare a quei musei di effimere minuzie”.

Si capisce, il messaggio che mi è arrivato era il ritaglio di un articolo di giornale. Leggo che un esponente della maggioranza – e il nome non ha senso riportarlo e verrò al perché – ha dichiarato davanti a un pubblico cospicuo e interessato che dobbiamo fare tutto ciò che è umanamente possibile per “evitare che il 2024 diventi l’anno record per i suicidi nelle carceri italiane”.

Mi direte, e penso a ragione, che la “tragedia immane” di cui parla, non può in alcun modo né essere descritta come effimera, né qualificata come minuzia. Su questo, concordiamo. Quello su cui forse potremmo non concordare – non io e chi legge, ma io e il noto politico – è l’effimera minuzia che sottende l’accorato appello.

Che – e qui è la ragione dell’omissis sul nome – è ciò che mi pare tenga per mano tutta la narrazione attuale e imperitura sui suicidi in carcere: il record. Tutto ciò di cui discutiamo, il tema reale della discussione, non quello – ben più grave – apparente; è il record, il punteggio che compare sul display di quel flipper della morte che sono le galere.

In altre parole, la mia convinzione è che avvenga uno spostamento di senso, forse per rendere addomesticabile, digeribile un abominio:  ciò che realmente interessa non è l’individuo che decide di morire, ma è un’altra cosa: stabilire il record o evitare il record. 

Proviamo per un istante a uscire da questa logica.

Naturalmente, non sono estraneo alla tentazione di dare una spiegazione razionale di quella che appare come una tanto tragica quanto ineluttabile evenienza. E generalmente, l’elemento da cui vari commentatori partono è il sovraffollamento. Approfondendo la questione, risulta evidente come questa argomentazione non regga, in un duplice modo: rispetto a un’analisi diacronica e riguardo a un’analisi spaziale (sia interna che con l’estero).

Provo a spiegarmi con i numeri: il tasso d’incidenza dei suicidi in carcere passa da 0,65 del 2013 a 1,54 del 2022. E sappiamo bene come il 2013 fosse l’anno della Sentenza Torreggiani e dell’entrata in vigore delle misure deflattive, ma comunque erano presenti nelle patrie galere oltre 66mila detenuti. 

Per dare un termine di paragone, l’anno scorso l’abbiamo chiuso con 56.196 detenuti. Il tasso di incidenza si misura dividendo il fenomeno in oggetto per la popolazione totale; quindi se diminuisce il denominatore,  il valore aumenta. 

Rispetto all’elemento spaziale: è un falso mito l’affermare che ci si suicida di più in carceri sovraffollati. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal Garante (sono riferiti al 2022), c’è una correlazione molto bassa tra suicidi e affollamento. In altre parole, l’incidenza dei suicidi non dipende dall’affollamento del carcere stesso.

Medesimo discorso si può fare prendendo in considerazione il Consiglio d’Europa: i dati dei rapporti Space I sono molto chiari, il numero dei suicidi avvenuti in Italia è in linea con la media dei Paesi presi in considerazione, e anche in Paesi dove il tasso di affollamento delle celle è ben più alto del nostro. Lo stesso argomento può essere avanzato rispetto alle condizioni di detenzione: possiamo pensare che le galere turche siano più umane delle nostre?

Quindi la domanda emerge prepotente: come ti spieghi tutto questo?

Non ho una risposta, ma ho delle percezioni, talvolta mutevoli. Ma cambiano spesso solamente quando sono fuori; in carcere mi paiono sempre le stesse, tanto irragionevoli quanto violente. 

Perché ritengo che – parafrasando le parole usate da Nordio qualche tempo fa – il fenomeno dei suicidi in carcere sia inevitabile, ma che non siano il sovraffollamento o la mancanza di attività a contare, bensì la violenza intrinseca e generalizzata dell’istituzione totale. E ancora di più, l’assenza o la rarità di due elementi: la rete di protezione – familiare e sociale – a cui i detenuti possono appigliarsi in un momento drammatico quale l’entrata (o l’uscita) da un carcere e la promessa di futuro che l’istituzione riesce a fare al detenuto.

Possiamo accontentarci di ridurre tutto questo a una cifra?

Confrontiamoci nella riunione settimanale del 09 aprile alle 20.30.