Perché il progetto della Rosa nel Pugno è fallito? Avevano dunque ragione Massimo D’Alema (è un mero cartello elettorale, disse) e Dino Cofrancesco, che argomentò l’impossibilità di un incontro fra i due riformismi, fra il movimentismo radicale e l’istituzionalismo socialista? Avevano ragione Rino Formica e tanti altri socialisti? Se si guarda al risultato, certamente sì. Ma vorrei qui motivare diversamente le ragioni del fallimento, anch’io con uno sguardo alla storia d’Italia, ma da un punto di vista differente. Certo, nessuno nega che alcune difficoltà, di natura perfino “antropologica”, si siano manifestate con una irruenza incoercibile, ma il punto vero è un altro: è che il liberal socialismo non passa, nel senso comune di massa della nostra società, nella sua cultura politica, nelle adesioni elettorali. Una sinistra, che manifesti intenzioni liberali, resta piccola, sparuta minoranza, e si scioglie, prima o dopo, in una occasione o in un’altra. Ma il liberalismo non piace neppure a tutta quell’aria centrale, oggi nel centro sinistra, formata dallo stabilizzarsi politico del cattolicesimo democratico e “solidarista”, almeno dai tempi di Fanfani.
E fatica ad affermarsi nel centro destra, dove ai conati berlusconiani (a parte le anomalie profonde del berlusconismo, ma è stato l’unico, confuso e contraddittorio tentativo di affermare un liberalismo di massa, dominato però dagli interessi del leader) furono contrastati da forze annidate ben dentro l’alleanza. Nè vale richiamare il successo di consenso di alcune grandi battaglie radicali e liberali soprattutto del passato, anzi. Il fatto che quei successi non riuscissero mai a stabilizzare un voto politico radicale, sempre assai gramo, è proprio la conferma che, passata l’occasione, l’adesione di lunga durata riprendeva le vie consuete.
È dunque la società italiana nel suo insieme che rigetta, starei per dire per sua costituzione storica, che idee liberali, da istanza di liberazione di alcune forme di vita, si facciano per davvero politica, e si diano una forma. E non s’è visto qualcosa di questo destino anche nella vicenda craxiana? Questo è il punto da indagare, anche per il futuro. Il grande macigno sta, credo, nella rappresentazione che il compromesso cattolico comunista ha consegnato alla storia italiana. Se volessi risalire ancora più indietro, alle prime “letture” dello Stato social corporativo degli anni venti, lo dovrei fare con argomentazioni analitiche qui non consentite, e quindi ritiro subito la mano, ad evitare rigetti e condanne. Il grande macigno sta nella forza opaca di corporazioni che hanno consolidato nei decenni irriducibili posizioni di egemonia e di consenso in zone ”parziali” della società, il grande macigno sta in una interpretazione dello Stato sociale che ha condotto alla degenerazione di assetti significativi dello Stato di diritto e dei connessi principi individualisti e liberali. Gli esempi sono pressoché superflui: dalle patologie sindacali, dove il consenso si prolunga oltre gli stessi interessi dei consociati, alle patologie corporativo professionali, al rafforzamento di posizioni di potere locali chiuse senza speranza, a tante altre. Il seme del liberalismo si è spento fra le pieghe di una cultura politica che lo taccia di antipolitica; si è spento in un assetto sociale statico e conservativo; si è spento nel grande compromesso che ha dominato la vita italiana e che forse continuerà a dominarla, nonostante tante cose convergano per diversi assetti e prospettive. Timidi tentativi dall’interno vengono ogni giorno spezzati; timidi tentativi dall’esterno (anche la Rosa) cadono sotto i colpi della terribile preoccupazione di alcuni di restar fuori dagli assetti di potere in formazione: nessuno ha fiducia che, lavorando pazientemente, le cose possano mutare, anche questo un segno dei tempi. La scorciatoia del ”partito unico” (così mi piace chiamare il costituendo partito democratico) peggiorerà le cose, collocandosi evidentemente nell’alveo descritto, fino a un rischio democratico se nel frattempo altre zone della società non troveranno risposte e forme di organizzazione diverse. Non ho mai condiviso la tesi di Michele Salvati, per il quale il seme di una proposta liberale, non negatrice della necessaria solidarietà sociale, fosse già tutto interno al progetto del nuovo partito. Penso proprio il contrario, quell’ipotesi è destinata, da questo pun to di vista, al “lasciate ogni speranza voi che entrate”.
Per un po’ di tempo, ebbi l’impressione che dall’interno del mondo cattolico potesse maturare, sull’onda di tanti fatti, una nuova attenzione per quel cattolicesimo liberale, di ascendenza degasperiana, che era stata una isolata parentesi nella storia italiana. Ci fu una fase della direzione margheritiana di Rutelli che sembro andare in questa direzione, poi più nulla, e anche De Mita ha deluso. Le “primarie” hanno spento tutto e tutti, anche qui in modo patologico, come se non si attendesse altro, quando non c’era nessuna necessità di ricavare da un fatto indicativo ma di ambiguo significato tutto ciò che vi si è tratto, come il coniglio famoso dal cappello del prestigiatore. “Chapeau”, per chi ha condotto l’operazione, un po’ meno per chi la ha subita. Ma, tant’è, questa è la partita che ha vinto. E le conseguenze sono sotto i nostri occhi. Il governo è tutto pencolante da un lato, anche questo prevedibile per chi aveva ritenuto di poter fare una certa diagnosi del ”prodismo”. Nulla di nuo vo sotto il sole, come ricorda l’Ecclesiaste. E come la Rosa si poteva salvare in questo quadro? Solo una convinzione profonda e unitaria del suo gruppo dirigente poteva fare ciò, creare una zona di resistenza attiva, un lavoro continuo e intelligente, minuto e generale insieme. Non è stato così. L’occasione è perduta. La politica ha i suoi tempi e le sue occasioni che non tornano. L’anticamera del partito democratico credo che presto si affollerà di reduci di altre esperienze, spero non con il cappello in mano. Per me, la conclusione di quella esperienza è anche, come già ebbi occasione estiva di scrivere, la conclusione del mio impegno politico