CRIMINI MINORI
Da Left Avvenimenti del 17 febbraio, pag.56
“Mi chiamo Maria, sono detenuta, devo scontare una pena di cinque anni. Fuori da qui, purtroppo, non ho nessuno ad attendermi (questo già dall’infanzia) e il mio arresto mi ha portato a perdere tutto compreso l’affetto di uno splendido bimbo di quattro anni che, dopo un intervento degli assistenti sociali, mi è stato tolto e dichiarato in stato di adottabilità. Mi è rimasto solo il lavoro che il mio datore mi ha conservato nonostante fosse al corrente del mio arresto. Sono in carcere perché ho spacciato hascisc…”
(M. L.)
Questa è una delle tante lettere che quotidianamente arrivano presso la sede dell’Associazione “il Detenuto Ignoto”. In particolare, come tante altre, questa lettera mette in risalto la oggettiva perdita di riferimenti affettivi tanto spesso subita da chi varca i cancelli di una struttura penitenziaria per scontare una pena. Ci si rende conto, purtroppo, di come per legge venga vanificato o annullato anche ciò che dovrebbe invece essere tra le principali fonti di riscatto in un percorso teso alla riabilitazione del reo, ovvero proprio quei legami intimi di appartenenza familiare che sono alla base del vivere sociale. E questo è tanto più grave quando ad essere messo in discussione è il vincolo d’amore della disponibilità di una madre al figlio di pochi anni.
La delicata situazione delle detenute madri e dei loro figli è una materia che solo in tempi relativamente recenti è diventata oggetto di leggi che, però, così come attuate, comportano degli effetti collaterali piuttosto controversi, causati dall’impossibilità per alcune detenute, soprattutto straniere e/o senza fissa dimora, a scontare una pena commutata in arresti domiciliari. Accade così che in Italia circa 60 bambini fino all’età di tre anni, tempo estremamente prezioso e delicato della vita del bambino, condividano con le loro madri gli ambienti non proprio edificanti delle patrie galere, e che, se allo scadere dei tre anni le loro madri non si troveranno ancora in grado di ottenere gli arresti domiciliari, questi bambini saranno loro tolti per essere dati in affidamento.
Ma i problemi derivanti nelle famiglie dalla reclusione di un loro membro sono naturalmente anche di altra natura, meno affettiva, più materiale ma anch’essa drammatica. Pensiamo a tante famiglie costrette a macinare settimanalmente, a proprie spese, anche migliaia di chilometri per andare a trovare il proprio caro rinchiuso in un carcere lontano, o a quelle che non hanno più in casa chi provveda al sostegno economico del nucleo. Vediamo così come ci troviamo di fronte a un’impostazione politica e culturale della pena che, oltre a punire i colpevoli, colpisce duramente anche i loro prossimi congiunti, e in questo processo è seriamente messa in gioco ogni speranza per quei detenuti, per i loro figli, per le loro famiglie, di ritrovare un domani una propria, ancorché fragile, serenità affettiva e morale.
IL NAUFRAGIO DELL’AMNISTIA E DELLE SPERANZE
Da Left Avvenimenti del 10 marzo, pag.50
“Mi chiamo L. e vi scrivo a nome di tutta la II° sezione del carcere di S. Anche se penso di rappresentare il pensiero di molti che come me, vivono ristretti in questo mondo a parte che è il pianeta carcerario.
Tutti noi per l’ennesima volta ci ritroviamo a partecipare (grazie a voi) al momento più importante della nostra detenzione (dopo la scarcerazione ovviamente..) la proposta dell’amnistia e dell’indulto.[…]
Siamo chiusi in cella 21 ore al giorno, senza neanche lo spazio fisico per stare in piedi, senza corsi professionali, ne scuole superiori e inferiori dell’obbligo. Siamo ostacolati in qualsiasi iniziativa, e buttati volontariamente in istituti lontani dalle nostre famiglie.
Ora vi chiedo: ” dov’è la volontà di recuperarci?” perché non prendono forma le belle idee, che alcuni dicono di voler attuare solo nei periodi pre-elettorali?
L.
Il 1 marzo scorso si è svolto a Roma il convegno “La salute in carcere, parliamone senza censure” organizzato dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, al quale il Pontefice, il presidente Ciampi e il ministro Castelli hanno voluto contribuire con alcuni messaggi… E c’era da spettarselo: è bastato un breve tiepido messaggio del Pontefice, un apprezzamento del Presidente Ciampi al convegno, che i media nazionali hanno subito riempito i propri palinsesti con lunghi servizi sui temi della detenzione, e le dichiarazioni sono fioccate a sostegno dei poveri detenuti un po’ da ogni parte politica (evidentemente un rigurgito di umanità a buon mercato fa bene un po’ a tutti in campagna elettorale).
Non che l’informazione non serva alla causa che anzi meriterebbe un’attenzione più regolare, non solo contingente, da parte dei media. Ma in realtà c’è poco di nuovo. I dati forniti la settimana scorsa dal DAP al convegno non aggiungono molto (anzi presentano alcune lacune) a quanto da tempo denunciato come una situazione in continuo peggioramento che porterà presto al disastro, nonostante le infondate rassicurazioni del ministro Giovanardi.
Era proprio sulla base di questi dati e dell’esperienza di tanti operatori che a Natale il Comitato Promotore della Marcia per l’Amnistia per la Giustizia e la Libertà si era messo al lavoro, e il
suo impegno ha permesso a centinaia di persone di manifestare per questa grave questione sociale, dando forza alla seduta straordinaria in Parlamento per la discussione e votazione dei provvedimenti di amnistia e indulto. C’è invece da chiedersi dov’erano allora il Presidente Ciampi e Papa Ratzinger e il DAP con il Ministro Castelli, il cui silenzio di quei giorni fa comunque più rumore – alle orecchie dei detenuti, degli operatori e degli agenti di custodia – delle loro ultime esternazioni.
PRIGIONIERI DELLA DROGA
Da Left Avvenimenti del 17 marzo, pag.57
“…Sono in carcere da circa un mese, per scontare una condanna a 5 mesi di carcere per un reato commesso 12 anni fa, quando ero tossicodipendente.
Nel frattempo mi sono rifatto una vita, avevo un lavoro, ho sposato una ragazza e ho una bimba bellissima di tre anni. Adesso però la mia esistenza ha perso di nuovo senso. Ho perso il lavoro, e mia moglie e la bambina sono sole ad affrontare troppi guai.
Se riuscissi a scontare questi mesi in misura alternativa o in affidamento sociale potrei lavorare per poter mandare a casa i soldi per mia moglie e la bambina, e per pagare una parte delle spese per l’avvocato…”
Matteo
Matteo ci scrive da Rebibbia e ci parla di un problema che molto di rado è stato posto all’attenzione dei lettori, e di sicuro men che mai all’attenzione dei telespettatori italiani. Eppure il problema esiste, e pur senza doverlo sperimentare si può facilmente comprendere quale disgrazia possa significare per coloro – neanche tanto pochi – che ne sono vittima, e per le loro famiglie, vittime innocenti. Più in generale, in questo paese la Giustizia ha assunto una lentezza e un ingarbugliamento progressivo tali da generare veri e propri paradossi della sua funzione, arrivando a distruggere esperienze importanti e spontanee di riabilitazione sociale, come nel caso di Matteo, privato del lavoro e separato dagli affetti per lui più significativi, per essere sottoposto a una pena che non si può proprio dire essere tesa alla rieducazione del condannato.
A LUCIANO SERVE AIUTO
Da Left Avvenimenti del 24 marzo, pag.58
“Mi chiamo F. e mi trovo ristretto nel carcere di M. da qualche anno.
Purtroppo in questo istituto sono tante le cose che non vanno, manca qualunque tipo di attività ricreativa e lavorativa. Ma il motivo di questa lettera non riguarda la mia situazi
one personale, insieme ai miei compagni di cella abbiamo pensato di scrivervi per denunciare la grave situazione in cui verte un nostro compagno di cella che è malato di Aids.
Luciano, si chiama così, sta molto male, e noi inermi assistiamo ogni giorno a questa assurda ingiustizia: non essendoci in questa struttura né medici, né farmaci a disposizione questa persona non riesce a ricevere le cure adeguate.
L’avvocato di Luciano ha presentato istanza per chiedere il differimento della pena o la sostituzione della misura carceraria con quella domiciliare, ma la richiesta è stata bocciata, con la seguente motivazione: per ottenere il differimento della pena è necessario che la
persona si trovi in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative.
Quindi non basta che il condannato sia affetto da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria, occorre che la malattia sia giunta ad una fase così avanzata da escludere la rispondenza del soggetto ai trattamenti disponibili o alle terapie.
Pur non essendo noi dei medici, siamo certi, vivendoci ogni giorno insieme, che Luciano non potrà resistere ancora molto tempo in queste condizioni.
Vi chiediamo aiuto per una persona che ha sbagliato, ma che ha comunque diritto a morire con dignità fuori da queste mura.”
Nelle carceri italiane il 27% dei carcerati è tossicodipendente, e i malati di Aids sono 1.525, pari al 2,5% del totale. Secondo lo stesso Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, in realtà, questa patologia avrebbe un’incidenza effettiva perlomeno tripla rispetto al dato ufficiale, dal momento che il test sull’Hiv è facoltativo e almeno due terzi dei detenuti rifiutano di sottoporsi all’analisi specifica.
Non c’è da meravigliarsi su questo. Basti pensare che in questo rifiuto gioca un ruolo fondamentale non solo il timore della persona detenuta, come anche spesso della persona libera, di scoprirsi malato, ma anche più probabilmente il timore che, in un ambiente angusto e sovraffollato come la cella, dove la precarietà dell’igiene e il frequente e non controllabile uso promiscuo di particolari oggetti (come per esempio le lamette da barba) sono squallida quotidianità, tale malattia possa comportare l’emarginazione dai riti sociali e dalla solidarietà dei compagni.
Non è questo il caso di Luciano che invece, proprio grazie alla solidarietà dei compagni, riesce perlomeno a dar notizia della sua situazione al mondo esterno.
Ma la questione più grave riguarda proprio la medicina penitenziaria, che troppo spesso risulta inefficiente quando non addirittura inesistente, e questo aspetto ha subito un’ulteriore peggioramento da quando la responsabilità sanitaria sui detenuti è stata scaricata dal DAP alle ASL (i cui fondi per la medicina penitenziaria sono stati falcidiati nel corso delle diverse finanziarie) in un passaggio di consegne mai definitivamente perfezionato che ha generato confusioni e accavallamenti di pertinenze, e alla fine chi ne fa le spese, sulla sua pelle, è sempre il più debole.
In realtà non ci vuole troppo buon senso per comprendere che certi tipi di patologie andrebbero trattati in ben altro modo e in ben altre strutture. Qualcuno dirà che per questo esistono diverse soluzioni fino al ricovero esterno in appositi reparti ospedalieri riservati ai detenuti, costantemente piantonati. Il tutto è arrivarci vivi.
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