RADICALI ROMA

La sorella di Giorgiana Masi "Trent'anni senza giustizia"

  Uscendo di casa aveva rassicurato la madre: «Non suc­cederà nulla. È una giornata di fe­sta. Canteremo e festeggeremo. Se accadono incidenti mi metto al sicuro». Alle sette della sera Giorgiana Masi, 19 anni, giaceva bocconi all’imbocco di ponte Garibaldi, la testa verso Trastevere, i piedi verso il ponte, accoppata da un colpo alla schiena. Giovedì 12 maggio 1977, trent’anni fa.

 

 

 

Vittoria Masi, la sorella di Gior­giana, è una signora di 51 anni, che per sfuggire al dolore è ripa­rata in Toscana dove gestisce un agriturismo. «Non ho nemmeno seguito le rievocazioni sul’77, so­no fuori da tutto, per non dover ricordare ho preferito andarme­ne da Roma. E in tutti questi anni ho preferito tacere». Vittoria è ri­masta sola. I suoi genitori sono morti alcuni anni dopo la trage­dia: il padre faceva il parrucchie­re, la madre la casalinga. Avevano cresciuto le figlie in via Trionfale, un edificio popolare un po’ scro­stato, case occupate e grigi caser­moni, l’ospedale San Filippo Ne­ri sullo sfondo. Al Liceo Pasteur di via Barella Giorgiana frequentava la quinta A, la domenica distri­buiva il quotidiano Lotta Continua. A scuola animava un collet­tivo femminista. Una ragazza mi­nuta, fidanzata con un Gianfran­co Papini, di due anni più vec­chio, studente in psicologia, che quando seppe dell’assassinio tentò il suicidio e fu salvato dai famigliari per i capelli. «Non so che fine abbia fatto», ammette Vitto­ria.

 

 

 

I radicali avevano organizzato un happening in piazza Navona per festeggiare il terzo anniversa­rio della vittoria al referendum sul divorzio, nonostante il divie­to di manifestazione decretato dal ministro degli interni France­sco Cossiga. La polizia impedì l’ingresso in piazza Navona, l’ur­to tra manifestanti e forze dell’or­dine deflagrò per il centro della Capitale. Un lungo pomeriggio di barricate, con un parlamentare, Mimmo Pinto (Dp), pestato dai celerini. Soprattutto comparve­ro per la prima volta poliziotti in borghese, travestiti da autonomi, armati di pistole e spranghe. L’avvocato milanese Luca Bone­schi per anni si battè per la verità, ricavandone solo una denuncia per diffamazione dal giudice istruttore Claudio D’Angelo, che nel maggio 1981 archiviò il caso. Oggi è un malinconico signore di 68 anni. «Terrò le carte finché sbiadiranno». Anni fa tentò inu­tilmente di far ripartire il proces­so, consegnando un’istanza di riapertura dell’istruttoria, nella quale si puntava sulle molteplici testimo­nianze di chi aveva vi­sto le forze dell’ordine sparare ad altezza d’uomo su ponte Gari­baldi e da dietro la barricata costituita da un paio di automobili messe di traverso. «Un insegnamento di ca­rattere generale si può forse trarre da questa vicenda: ed è dedicato soprattutto ai giovani avvocati. Gli errori, forse anche le manipolazioni, av­vengono con le perizie».

 

 

 

Com’è accaduto troppo spes­so con i delitti politici in Italia non s’è mai trovato il colpevole. Fu “il fuoco amico”, come sostiene Cossiga, addossando la respon­sabilità a frange di autonomi, o furono le forze dell’ordine, che fecero fuoco con una pistola non d’ordinanza, come inutilmente cercò di dimostrare la parte civi­le? Quel giorno in piazza c’erano quasi sessanta agenti senza divi­sa, molti di loro mai interrogati dalla magistratura, e quelli inter­rogati dissero all’unisono che erano andati a ponte Garibaldi a incidenti terminati. Il prossimo 12 maggio i radicali torneranno in piazza per rispondere al Family Day dei vescovi, e ricordare così Giorgiana Masi: chiedono, tramite Maurizio Turco (Rnp), l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta, ri­chiesta avanzata anche dal verde Paolo Cento, «affinchè vengano accertate almeno le responsabi­lità politiche». La storia di Gior­giana Masi spiega bene anche a quali conseguenze nefaste condusse certa lotta politica negli an­ni Settanta. Sulla lapide che la ricorda, a ponte Garibaldi, «le compagne femministe» la de­scrivono come una vittima «della violenza del regime». L’unico im­putato della vicenda Masi è rima­sto proprio l’avvocato Boneschi. Fu denunciato da D’Angelo per­ché, in sostanza, aveva accusato il giudice di non avere fatto abba­stanza per pervenire alla verità. Nel maggio1982 si dimise da parlamentare — era stato eletto tra i radicali di Pannella — per non godere dell’immunità («nessuno mi disse grazie») e accelerare l’i­ter della giustizia. La causa, invece, pende ancora, venticinque anni dopo, ammuffita in qualche scatolone della giustizia civile.