E’ difficile prevedere come un uomo politico muti natura in un ruolo istituzionale. Luigi Petroselli e Antonio Bassolino, spettegolati come burocrati, furono popolari sindaci di Roma e Napoli. Il barricadero Ingrao impose la cravatta a Montecitorio (dovetti comprarne una blu, che porto ancora). Ciampi aveva il fascino del tecnocrate ma da presidente ha trionfato come patriota. Il laico Pera ha assunto la teologia come sestante. Casini ha retto con equilibrio e simpatia la Camera. Fini è stato buon ministro alla Farnesina. Dal Dna si direbbe che Bertinotti sarà ligio alle forme, a sorpresa, e Marini intento a mediazioni radicali con l’opposizione.
Siglate le dimissioni di Silvio Berlusconi (e in attesa degli I am sorry di chi denunciava «il regime»), con l’accelerazione sul Quirinale e lo stand by sulla lista di governo, occorre rispolverare l’antica scapulomanzia dei generali romani per divinare il destino dei politici che potrebbero indossare il laticlavio delle istituzioni. Malgrado la diversione su Massimo D’Alema operata dai commandos del Foglio, la destra punta sul bis del presidente Carlo Azeglio Ciampi. La Casa delle Libertà inanella mosse che gli osservatori raffinati apprezzano con grave annuire come «astute», la candidatura di Giulio Andreotti al Senato, adesso l’arrocco su Ciampi, con l’intenzione di mettere di cattivo umore i Ds. Si tratta a ben vedere di mosse malinconiche, finite al Senato in una ciambella senza buco e in una figuraccia per Andreotti, che uscito con stoicismo dalle peripezie giudiziarie, s’è visto battuto in un machiavello di cui non s’è inteso nè il cinismo, nè il fine. Rieleggere Ciampi a lungo vituperato dalla Lega e che Berlusconi ha trattato con malcelata freddezza significa ammettere che si ha paura del forcing di sinistra, magari proprio su D’Alema. Nella divisione del Paese Ciampi può essere garanzia di dialogo e fairness, equanimità delle garanzie. Per di più i suoi discorsi sull’Italia e la dignità a noi piacciono.
La partita Quirinale allontana la guerriglia sul governo e Romano Prodi deve operare puntando sulla divinazione della scapulomanzia. Se l’accordo che era stato sottoscritto resisterà alla bagarre degli esclusi, D’Alema potrebbe essere nominato vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri e Francesco Rutelli vicepresidente e ministro dei Beni culturali e turismo. Non scommettete sulla loro condotta guardando al passato. Rutelli è stato un buon sindaco di Roma e ha gestito senza pieghe l’Anno Santo, malgrado il debutto radicale. D’Alema, da premier s’è guadagnato la stima atlantica nei Balcani: chi lo giudica da certe rigidezze sul Medio Oriente sarà sorpreso. Prodi nomini i ministri con l’occhio a come matureranno al potere, non alle polemiche. In questo senso, nella ridda dei candidati, Parisi, Bindi, Melandri, i tecnici, sarà bene ripensare alla candidatura, che sembra in alto mare, di Emma Bonino alla Difesa. La Difesa francese è retta da una donna (Michèle Alliot-Marie), gli esteri Usa da una donna (Condoleezza Rice): la Bonino è tra i pochi nel centrosinistra ad avere sostenuto le missioni in Iraq e Afghanistan e conquistato la stima delle forze armate, scettiche per l’obiezione di coscienza, con i suoi spericolati raid giù da un elicottero. Le forze armate, fedeli alla Costituzione, non ingaggiano guerre, lottano per la pace, su egida Onu, compreso in Iraq. Bonino, pacifista e guerriera dei diritti umani, incarna questo nuovo spirito, che si vede al Master di peacekeeping di Torino, dove pacifisti e colonnelli dividono i banchi e partono per gli stessi fronti, chi con le stellette e chi con i jeans. Emma Bonino è il ministro giusto per le missioni di pace del XXI secolo, signorsì.