RADICALI ROMA

Laico con-vivere

  Giuliano Ferrara mi offre la possibilità di dire la mia, con qualche continuità e a ragionevole cadenza, sul tema della laicità. Lo ringrazio del cortese invito, che mi consente di inserirmi nel confuso parlare, nel ghiotto chiacchiericcio per il quale l’argomento è terreno fertile. Nel meglio e nel peggio (al quale, probabilmente verrà iscritto), la bagarre è aperta: e allora, coraggio, buttiamoci. Cominciando con un doveroso anche se scontato outing: mi ritengo e sono, cocciutamente, un laico. Inizialmente, ahimé, per una di quelle scelte adolescenziali che, rivisitate a distanza di anni, ci appaiono un po’ stupide e malmotivate. Oggi mi ritrovo ancora laico, e adesso la cosa è davvero irrimediabile. Credo sia la conseguenza di una certa vocazione a vagabondare, a essere un vagabondo: se mi è lecito scherzare, non del “dharma” ma, diciamo così, dell’ “essere”, nelle sue infinite manifestazioni, nella incomprimibile varietà. Ho una passione da Phileas Fogg per la varietà delle cose del mondo: soprattutto per le sue incertezze, le sue cadute e i suoi errori. Sono curioso insomma – qui volevo arrivare – del suo relativismo. Mi sento un po’ imbarazzato, di questi giorni sembra non stia bene dirlo, ma il relativismo mi affascina. E persevero, affermando spudoratamente che il relativismo non mi pare abbia alcunché da spartire con il cosiddetto “pensiero debole”. A me pare, al contrario, manifestazione di pensiero forte, forte e responsabile. Vedo il relativismo come una sfida, avvolgente e perfino assillante: per la mia laicità, il relativismo è ricerca continua, messa in atto della “relazione” con l’altro. Dunque responsabilità – quotidiana responsabilità – del vivere umano. Diciamo meglio: del con-vivere umano.

Il relativismo non è edonismo. Un sentore, un profumo di edonismo, per la verità, lo conserva: ma è l’edonismo che viene dalla dolcezza del vivere, del con-vivere. La chiave di questa relazione con l’altro sta nella parola, che lega tra loro – nel dialogo come nella disputa o conflitto più feroce – i relativi, i diversi, divisi tra loro ma non lontani. E la parola, questa essenza del relativismo, ha i suoi luoghi di elezione lì dove l’uomo meglio commercia con i suoi simili: il mercato, l’agorà, così come i Parlamenti, l’agorà della democrazia che fa uguali, relativi e dunque relazionati, i discorsi. L’attuale demonizzazione del relativo (e non ci si dica che il relativo è altra cosa dal relativismo), che equivale a dire del laico, del laicista e della laicità, ha qualcosa di apocalittico, suona come il rintocco della biblica campana. Davvero il mondo relativista è così dannato? Ma quando mai, a memoria d’umanità, il mondo è stato diverso, migliore dell’oggi? Oggi sembrano esposte al rischio manipolativo le radici della vita, ci si dice; ma ieri, in un lunghissimo angosciante ieri, a rischio era persino la vita, la vita nel suo quotidiano. Così, se invece che consegnarci alla condanna apocalittica ci dicessimo, laidamente, che il mondo, sì, ha le sue pene, difficoltà e rischi, che per risolverli e schivarli il meglio – o forse il solo possibile – è che ciascuno di noi si preoccupi di dare il suo contributo. Empiricamente, come ciascuno “può”, il che vale a dire come ciascuno “deve”. E’ poco, questo: forse, o sicuramente, ma dove è il molto che ci assicurano i cultori dell’Assoluto? L’Assoluto è importante, gioca un ruolo fondamentale nel discorso dell’uomo, e se ne me sarà data la possibilità dirò quel che ne penso: intanto, in prima sintesi, mi appare forse intelligente ma certamente anche impotente. Altrimenti, dopo averci intelligentemente creato, non dovrebbe abbandonarci così miserevolmente al primo tsunami o terremoto che passa. Pur rispettandolo, gli uomini dovrebbero, prudenzialmente, imparare a salvarsi dalla provvidenzialità dei suoi terremoti o tsunami evitando al possibile (grazie alle indicazioni che la scienza probabilistica e relativa, assieme alle sue sofisticate tecnologie, vorrà fornirgli su Internet) le zone a rischio.