RADICALI ROMA

Le illusioni della ripresa, le debolezze dei riformisti

  La sensazione che si respira oggi in Italia è che o l’aggiustamento fiscale, le liberalizzazioni e la riforma delle pensioni si fanno “ora o mai più”. Certo, se dopo un governo di centro-destra che ha fatto meno di quello che avrebbe dovuto se ne aggiungesse uno di centrosinistra che si comportasse allo stesso modo, gli italiani non saprebbero davvero a chi rivolgersi. Ma esistono oggi le condizioni propizie per una svolta riformista? In quali circostanze è più facile che i Paesi democratici adottino riforme serie, di impatto strutturale e che non siano palliativi?

 

 

 

 L’esperienza nell’area Ocse dimostra che le riforme si realizzano più facilmente in un momento di crisi economica, dopo un cambio di governo e con uno nuovo che abbia una solida maggioranza. Per esempio, il cambiamento del welfare nei Paesi nordici di cui tanto si parla è il risultato di prolungate recessioni negli anni 80 e 90. In Italia oggi esiste una sola delle tre caratteristiche: un nuovo governo. Ma la prima e la terza? Fino a qualche mese fa c’era un’atmosfera di recessione, si affermava che l’Italia era il malato d’Europa, i toni erano foschi. Poi c’è stato un miglioramento e i dati hanno confermato una leggera ripresa, tanto che l’Ocse ieri ha rivisto all’1,8% la previsione di crescita del Pil italiano nel 2006 (e al 2,7% quella dell’area euro). L’impressione di una crisi imminente si è mitigata.

 

 

 

 L’effetto del miglior clima economico è che le riforme diventano, paradossalmente, più difficili. Chi vi si oppone all’interno del governo e della maggioranza (non solo l’estrema sinistra) può sbandierare l’aumento delle entrate derivanti dalla maggiore crescita come il segnale che la fmanza pubblica non va poi così male. E subito si riduce la manovra da 35 a 30 miliardi di euro o addirittura meno (c’è chi ha sussurrato 27 miliardi). E si parla apertamente di scorporare la riforma della previdenza dalla Finanziaria, quando da decenni si ripete, e ormai tutti l’hanno imparato, che senza toccare pensioni e impiego pubblico non si stabilizza la spesa pubblica in Italia. Il fatto che Romano Prodi abbia affermato che «forse» la modifica del sistema pensionistico non sarà inclusa nella manovra è peggio che se avesse detto che non lo sarà sicuramente.

 

 

 

  Quel «forse» tradisce il fatto che lui, e probabilmente il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, vorrebbero includerla ma non ci sta riuscendo, nonostante riunioni fiume a porte chiuse con i vari ministri e i rappresentanti parlamentari della maggioranza. E’ un sintomo di debolezza che doveva risparmiarsi, come insegna l’abc del politico.

 

 

 

 Ridurre i tagli di spesa mentre le entrate aumentano e il deficit è superiore al 3% del Pil è uno schiaffo non solo alla teoria economica ma anche al Patto di stabilità tanto caro ai due europeisti par excellence, Prodi e Padoa-Schioppa. Insomma, nonostante la retorica e le buone intenzioni, Padoa-Schioppa e Prodi rischiano di perdere la partita e proprio il fatto che l’economia in questi mesi vada meglio non li aiuta.

 

 

 

 Ma non si deve confondere il ciclo economico con il trend. Una crescita che in un anno è delI’1,8% invece che dello 0,8%, con le entrate fiscali aggiuntive che ne conseguono, significa ben poco nel medio periodo. A parte il fatto che già si parla di un rallentamento nel 2007 (come mostrano anche le ultime stime del Centro studi Confindustria), vi sono inoltre le incognite di una possibile brusca frenata americana e di un’ulteriore svalutazione del dollaro, senza parlare dei rischi di degenerazione del conflitto mediorientale con ricadute sul prezzo del petrolio. Soprattutto, in Italia l’andamento della produttività e quindi del Pil potenziale rimane lento e preoccupante, e per accelerarlo servono le riforme.

 

 

 

 hnmaginiamo allora che nel 2007-2008 si verifichi uno scenario ciclico sfavorevole: flessione della crescita mondiale, stagnazione in Italia, percezione di crisi. Allora, però, il Governo Prodi starà già guardando alle successive elezioni e sarà logorato da quasi tre anni di litigi interni. Ovvero, avremmo la prima condizione (crisi) ma non più la seconda, cioè un nuovo governo in “luna di miele”, come dicono gli americani. Perciò non diventerebbe più facile realizzare le riforme in quelle ipotetiche condizioni.

 

 

 

 

 

E allora? Il messaggio è semplice. Sbagliano i riformisti ad accettare che, siccome la congiuntura è migliore, si possa ridimensionare la manovra di aggiustamento dei conti pubblici. E un madornale errore di tattica politica, oltre che economico. Parliamoci chiaro: che il deficit sia al 2,8% o al 3,1% nel 2007 non è enormemente importante in sé (anche se sarebbe meglio che fosse al 2,8%, dato l’alto debito pubblico). Ma è cruciale che i riformisti nel Governo non cedano, per principio, agli estremisti della spesa e ai sindacati. Se perdono la prima partita perderanno sempre. Inoltre, i riformisti devono usare l’avvio della legislatura per approvare tutte quelle leggi che non costano nulla e stimolano la produttività, come accade con le liberalizzazioni e la maggiore concorrenza. Aver fatto concessioni ai tassisti è stato un altro sbaglio tattico straordinario. Si rendono conto di quanti elettori sono costretti a prendere taxi a tariffe elevate e quanti voti perderanno con la mancata resistenza ai tassisti? Sicuramente più di quanti ne guadagneranno dal tassisti stessi. A me pare un conto molto semplice.

 

 

 

 Crogiolarsi nei piccoli successi di un’economia che va meglio dà qualche soddisfazione nel breve periodo ma costituirà un fardello politico nel prossimo futuro. Oggi è il momento del rispetto del rigore e non della concertazione, soprattutto quando il rigore fa guadagnare voti, come nel caso dei tassisti. L’estrema sinistra sa che se facesse cadere il governo alla guida del Paese ritornerebbe il centrodestra con Berlusconi. Se è quel che vuole, per perseguire qualche oscura strategia politica, ci riuscirà in ogni caso. Quindi tanto vale tener duro.