RADICALI ROMA

Le ragioni generali per adottare una strategia economico-urbanistica fondata su una politica di rottamazione della “spazzatura edilizia” post-bellica, priva di qualità

di Aldo Loris Rossi

Oggi la crescita zero della popolazione e la sovra-urbanizzazione legittimano l’abbandono del mito della crescita illimitata della città, che tradizionalmente avveniva a danno dei centri storici e della natura. In Italia dobbiamo tendere verso due obiettivi principali: da un lato, la conservazione integrale dei centri storici, che sono un’eredità esigua, una parte assolutamente minoritaria di tutto il patrimonio edilizio esistente, unica e irriproducibile; dall’altro, il contenimento dell’espansione urbana indiscriminata, che continua a distruggere aree agricole produttive (e bellezza paesaggistica), risorse anch’esse uniche e irriproducibili, provocando gravi danni non solo all’economia primaria e al turismo, ma anche alla stessa qualità della vita nelle nostre città.

L’adozione di questi due principi apre una nuova strategia: concentrare la nostra attenzione sulle grandi aree urbanizzate negli ultimi 60 anni (le sterminate periferie degradate e le villettopoli prive di qualità) realizzando una radicale riqualificazione del tessuto urbano esistente fondata sulla rottamazione dell’edilizia post-bellica priva di qualità, non antisismica, di scarso valore economico e, quasi sempre, di nessun valore estetico-architettonico. Questa strategia può essere applicata anzitutto a quella edilizia degli anni ’40, ’50, ’60 e dei primi anni Settanta, non antisismica (le prime leggi risalgono ai primi anni ‘70) realizzata spesso nell’emergenza, ormai a rischio, anche perché dopo circa sessant’anni il cemento armato, se non è realizzato “a regola d’arte” non da sufficienti garanzie di stabilità. Tale edilizia è facilmente perimetrabile e può essere assoggettata ad adeguati piani di riqualificazione e “rottamazione”, capaci di attrarre investimenti pubblici e privati. Dal punto di vista urbanistico, dobbiamo infatti aver chiaro che questa edilizia si trova spesso in aree centrali o semi-
centrali, e nelle vicinanze dei principali assi di comunicazione, dunque di elevato valore immobiliare e urbanistico. Le ragioni che impongono una tale svolta politica derivano dal fatto che, nonostante la sovra-urbanizzazione esistente (siamo passati dai 35 milioni di vani del 1945 ai 120-125 di oggi, per una popolazione di 60 milioni di abitanti) si riscontra un bisogno crescente, e sempre più rilevante, di residenze di qualità. E, più in generale, di qualità urbanistica. Mentre, in realtà, sussiste un elevato deficit di attrezzature, servizi e parcheggi. In altre parole, noi oggi in Italia ci ritroviamo con tantissime costruzioni di pessima qualità, che hanno tra l’altro imbruttito e deturpato il territorio, e con poca qualità complessiva, sia architettonica che urbanistica. Anche dal punto di vista dell’economia turistica, e della nuova economia della creatività e della bellezza, che sempre più tutti invocano come strategica per il nostro paese, la devastazione del territorio e delle aree agricole, l’imbruttimento delle città e dei paesaggi di maggior pregio che abbiamo realizzato negli ultimi 50 anni rappresenta un dato più che negativo: catastrofico!

Ora, per innescare il processo di rottamazione della “spazzatura ediliza” non antisismica, abbiamo a disposizione tre possibili opzioni: demolire la “spazzatura edilizia” e ricostruire in situ; demolire la “spazzatura edilizia” e contemporaneamente restaurare i tanti centri storici delle aree interne attualmente degradati e abbandonati, utilizzare, quindi, parte del grande patrimonio edilizio oggi spopolato e abbandonato; e, infine, demolire e delocalizzare, realizzando per esempio frammenti di nuove città e nuovi centri a distanza di alcune decine di chilometri dalle attuali grandi città, in aree, naturalmente, che non siano ad alta produttività agricola o ad alto valore paesag-gistico. Nuove città che sarebbero anche ottimamente collegate alla metropoli principale da ferrovie veloci e ad alta frequenza. E’ evidente che non si può immaginare di scegliere una sola opzione: va invece utilizzato l’intero ventaglio di possibilità economiche, urbanistiche e architettoniche che abbiamo a disposizione, seguendo un piano strategico generale a scala regionale o inter-regionale. Occorrerà anche realizzare, evidentemente, in una parte dei casi, “case parcheggio” riservate ai cittadini per il periodo della riqualificazione urbana.

La soluzione corretta delle prime esperienze pilota diffonderà progressivamente questa nuova cultura della riqualificazione dell’esistente.

In sintesi, mandare al macero la suddetta edilizia significa: a) consentire la trasformazione di tale volumetria in architettura di qualità attraverso nuove tipologie edilizie; b) rinaturalizzare le aree recuperate; c) mettere in moto l’economia delle città, creando non solo nuovo lavoro, ma anche importantissimo know-how; d) aumentare l’efficienza energetica delle case, diffondendo l’utilizzo massiccio dell’energia solare e geotermica; e) concentrare sull’Italia una straordinaria attenzione da tutto il mondo; f) recuperare straordinari scenari di bellezza paesaggistica e architettonico-urbanistica oggi sepolti sotto le immense colate di cemento dell’edilizia spazzatura.

Appare evidente che occorre una svolta radicale nella “maniera di intendere l’urbanistica” da parte di tecnici, amministratori e degli stessi cittadini, per orientarsi verso una nuova generazione di piani! Ed occorrerà innovare profondamente e radicalmente la legislazione urbanistica nazionale ed introdurre i cambiamenti necessari nell’attuale organizzazione del governo del territorio, a tutti i livelli istituzionali: regionali, provinciali, comunali e a livello di città e di aree metropolitane. In conclusione, è fondamentale superare il tabù delle demolizioni: fino a quando gli italiani non cominceranno a considerare utile e ragionevole iniziare a demolire, e ricostruire, sia pure con un processo necessariamente graduale nel tempo, l’edilizia spazzatura realizzata negli ultimi sessantacinque anni, difficilmente il nostro paese potrà proiettarsi verso il futuro ed affrontare le sfide dell’economia globale del ventunesimo secolo.