C’è stata (e c’è) una interessata e ingenua sottovalutazione della finanza, degli imprenditori e della politica dinanzi alla lunga testimonianza di Stefano Ricucci. A destra, a sinistra e nelle aziende si è voluto liquidare l’estenuante testimonianza come «una storia del passato», dimenticata, ininfluente per l’interesse generale, ormai meta-bolizzata anche dall’opinione pubblica. Non è così.
L’indagine, che in un anno esatto di verifiche, ha confermato o smentito o trovato reticenti le parole del “furbetto” si muove e oggi coinvolge Francesco Gaetano Caltagirone, altri immobiliaristi e ancora Antonio Fazio che, nel 2005, era Governatore della Banca d’Italia. Il cammino dell’inchiesta giudiziaria farà la sua strada, ma l’affare si conferma serio e degno di attenzione. Fare spallucce dinanzi a legami imbarazzanti e nessi obliqui – seppure privi di rilievo penale – sembra un’operazione debole e destinata a non fare molta strada. La scena ricostruita dalla magistratura e dalle testimonianze dei protagonisti (da Ricucci come da Fazio e verificata dai pubblici ministeri) conferma che la politica non ha espresso soltanto «opinioni» nell’anno della scalate ad Antonveneta, aBnl, al Corriere della sera, al gruppo Riffeser. È stata (o ha cercato di essere) co-protagonista. I leader politici non si sono limitati a stare alla finestra, ad attendere l’esito di una contesa di mercato.Scesi in strada, sono intervenuti, con il peso del loro ruolo e responsabilità pubbliche, a vantaggio dei protégés. Berlusconi indica a Stefano Ricucci il partner industriale per l’assalto a via Solferino e scrutina i possibili mediatori. D’Alema consiglia a Consorte (Unipol) l’acquisto di pacchetti azionari mentre Fassino e Bersani (come ha svelato il Sole-24 Ore con un interrogatorio di Antonio Fazio) incontrano il governatore della Banca d’Italia per «spingere» una fusione Unipol-Monte dei Paschi-Bnl. Quel che se ne ricava è la serena convinzione che la politica abbia giocato in proprio la partita, per di più cercando di influenzare uno degli arbitri (il governatore). Chiunque comprende che non può essere questo il primato della politica né si può credere che questa interpreta-zione della politica come esercizio di autorità possa far bene all’Italia. La politica legifera.
Seleziona opzioni. Sceglie regole che possano modernizzare il Paese e renderlo capace di affrontare le sfide del futuro. A destra come a sinistra sembrano, al contrario, non voler prendere atto che una politica che, nello stesso tempo, gioca, fa l’arbitro e legifera è una cattiva politica che paralizza il Paese nella sua arretratezza.
Non sorprende naturalmente la reazione di Berlusconi che nega un attivismo confermato anche da un suo antico collaboratore (Ubaldo Livolsi). Da più di un decennio il Cavaliere ci ha abituati all’assoluta noncuranza in cui tiene conto le regole, i controlli, le responsabilità pubbliche e private e la verità. Sorprende che la sinistra mostri di credere o di aver creduto che le diverse opzioni etico-politiche possano diventare improvvisazioni fluide. Destra e sinistra sono cose diverse, nella cultura, nei valori, nel metodo. «Finché dura questo vuoto ideale e politico, le forze politiche non possono pretendere dalla gente una delega fiduciosa e convinta: in nome di che e per fare che? Nessuno chiede la luna; ma se non prendono evidenza nette discriminanti ideali e programmatiche, se ai miti contrapposti e trascinanti del passato si sostituisce un paesaggio politico indistinto, immagini omologate,e i partiti decadono a pure macchine elettorali, allora viene meno la ragione e la voglia di schierarsi». Non si può dire di meglio (anche se Luigi Pintor lo diceva all’ Unità addirittura il 31 maggio del 1983).
In nome di che e per fare che? È questa la domanda che affiora dal disegno delle scalate del 2005 e separa il Paese dalla “sua” politica. Berlusconi può non rendersene conto, mala sinistra, il centrosinistra?
Quel che il Paese vede è una fragilità strutturale della politica che cerca di porvi rimedio con una nascosta solidarietà di persone e di gruppi degradando le idee ad abiti da cerimonia. È una debolezza che rivitalizza la persistenza endemica dei compromessi sottobanco; la legittimazione delle clientele; l”‘affarismo” di predoni come Stefano Ricucci; gli egoismi di gruppo; la cronica contraddizione tra le parole e i fatti; la riduzione della vita politica a un confronto «scarso di idee e riluttante ai grandi programmi come alle questioni diprincipio». La visione di questo paesaggio «indistinto» danneggia il Paese – questo sì, e non il racconto del paesaggio – perché lo induce a credere alla flessibilità delle regole, lo separa dalle istituzioni e dallo Stato, ne umilia la fiducia nella politica e nel «vivere politico». È questa criticità che un leader politico dovrebbe affrontare per tenere unita la sua gente e, per la parte che rappresenta, il Paese e, per l’incarico che assolve, le istituzioni. Massimo D’Alema è stato il primo a denunciare la crisi di credibilità della politica, il rischio di un rigetto che avrebbe potuto «travolgere il Paese con sentimenti come quelli che, negli anni 90, segnarono la fine della Prima Repubblica». Dopo la diagnosi, è ora di approntare la terapia con audacia e fermezza, anche se è necessario rivedere criticamente i propri comportamenti e quelli del suo partito. Un leader “necessario” come Massimo D’Alema non può non saperlo e non può che assumersi con coraggio il compito di affrontare i problemi evitando di sopire e minimizzare, come gli è capitato a Ballarò. Pena il dissesto che egli stesso teme e la lunga agonia di una democrazia screditata.