ROMA – La prima fase è un normale trapianto di cellule del pancreas, per sconfiggere il diabete. Nel secondo tempo entrano in azione anche le staminali prelevate dal midollo. La loro funzione è quella di ridurre la reazione di rigetto. Antonella F., 44 anni, è stata la prima paziente diabetica a subire questo tipo di intervento. Un uno-due per sconfiggere prima la malattia (il diabete in questo caso, ma si tenterà a giorni con un trapianto di reni) e poi per tenere a bada la reazione di rigetto contro il nuovo organo.
A dispetto dell’origine italiana sia della paziente che dell’équipe medica, il trattamento sperimentale è avvenuto all’università di Miami. “È solo un caso – spiega il coordinatore Camillo Ricordi – molti di noi si sono trasferiti a fare ricerca negli Stati Uniti da anni, e in lista per il trattamento abbiamo pazienti provenienti dai quattro angoli del mondo”.
“Mi sento baciata dalla fortuna” dice oggi Antonella. “Ho potuto toccare con mano che la ricerca in medicina serve. A me sta cambiando la vita”. Del diabete alla signora, originaria del Piemonte, non pesavano tanto le iniezioni continue di insulina. “Quello è il meno. L’aspetto più spossante era il susseguirsi senza tregua di crisi di ipoglicemia e iperglicemia. Il dover mangiare a ore fisse, anche se non avevo fame. Il non potermi permettere una telefonata di un quarto d’ora, come sto facendo oggi, nel caso una crisi fosse lì ad affacciarsi. Oggi sono sempre a dieta, certo, ma sento di aver riconquistato la libertà”.
Antonella era stata colpita da una forma particolarmente grave di diabete di tipo uno a 14 anni. “L’intervento in sé è stato abbastanza semplice – racconta Ricordi – e dopo una notte in ospedale lei è tornata a casa”. Lo scorso 12 giugno la signora piemontese ha subito il trapianto di isole pancreatiche (le cellule che hanno il compito di produrre insulina) prelevate da un donatore morto.
Cinque giorni dopo, e poi a distanza di un’altra settimana, sono state trapiantate anche le staminali del midollo osseo, prelevate dallo stesso donatore. “Queste ultime si sviluppano all’interno del corpo del ricevente” spiega Ricordi. Essendo estremamente plasmabili, le staminali riescono ad adattarsi al nuovo organismo e si trasformano in cellule del sistema immunitario affini a quelle del malato. “Diventano una sorta di chimera. E il sistema immunitario del paziente, riconoscendole come estranee, ma solo fino a un certo punto, impara ad accettarle. O per lo meno sviluppa una reazione meno violenta”.
Finora le previsioni dei ricercatori si sono avverate. A due mesi dall’intervento, prosegue Ricordi: “I valori della glicemia della paziente sono tornati nella norma e si sono stabilizzati”. Il mese prossimo la signora tornerà in Italia. “Vorrei dedicarmi a sensibilizzare gli altri sull’importanza della ricerca scientifica” dice. L’équipe di Miami si prepara intanto al secondo intervento, seguendo le tabelle di marcia dettate dall’ente americano incaricato di regolamentare le sperimentazioni scientifiche: “La Food and Drug Administration – dice Ricordi – ci ha permesso di effettuare un trapianto ogni tre mesi. Si tratta di una pratica altamente sperimentale e occorre procedere con cautela”.
Il prossimo paziente subirà prima un trapianto di reni. Poi le iniezioni di staminali penseranno a “rieducare” il suo sistema nervoso per mitigare il rigetto e ridurre la quantità di farmaci immunosoppressori. Ma quanto è difficile per una donna italiana tentare una sperimentazione in America? “Sono approdata negli Stati Uniti – ricorda Antonella – per una cura agli occhi. Ma la mia fortuna è anche che il professor Ricordi collabori con il San Raffaele di Milano e con l’Ismett di Palermo. Così ora potrò proseguire i controlli trimestrali in Italia. Nei medici americani ho sempre trovato molta professionalità. Mai hanno cercato di indorare la pillola o di forzare la mia scelta. Io, d’altra parte, non ho avuto dubbi. Un fallimento non mi avrebbe cambiato la vita, mentre un successo me la sta ridonando”.