RADICALI ROMA

Le vittime del terrorismo sconfitte due volte da un'Italia senza memoria

Alle vittime del terrorismo in Italia non resta niente: nè la vita, né, esaurite le cerimonie del cordoglio, il ricordo delle loro migliori imprese. Non hanno un’identità pubblica: chi ricorda i nomi degli agenti di polizia scannati in una livida alba degli anni Settanta, o quelli di chi venne annichilito nell’attentato di Bologna del 1980? Le loro famiglie non godono di considerazione sociale: a meno che il congiunto trucidato dai terroristi non fosse famoso (D’Antona o Tarantelli, Moro o Ruffilli), nessuna casa editrice ospiterà le loro memorie, nessun giornale le intervisterà, nessuna televisione accenderà per loro microfoni e riflettori. Le famiglie delle vittime del terrorismo non possono raccontare il loro pentimento perché non hanno nulla di cui pentirsi. Non scrivono sceneggiature di film. Non ricevono proposte di candidature da parte dei partiti. E se manifestano chiassosamente la loro esasperazione vengono accolte con fastidio, senza commozione, senza pathos.

 

 

 

 E’ certamente ingiusto applicare a un ex terrorista la pena perpetua dell’interdizione dai pubblici uffici. Sergio D’Elia, reduce di Prima Linea, ora deputato in Parlamento con la Rosa nel pugno, ha percorso con dignità il suo itinerario di espiazione, è profondamente cambiato nel corso del tempo, si è impegnato nel corso degli anni in serie battaglie civili. Inchiodarlo per sempre al suo passato peraltro rigettato con non comune radicalità, è ingiusto. Ma D’Elia deve capire che la vedova di Fausto Dionisi, ammazzato dal fuoco di Prima Linea nel 1978, non può che vivere con umiliazione la nomina a Segretario della Camera di uno degli assassini di suo marito. Riconciliarsi con il passato è necessario. Chiudere simbolicamente con la stagione degli anni di piombo è doveroso, perché nessun Paese può sopravvivere soffocato dal rancore e dall’odio perenne. Ma se all’annientamento fisico di un povero poliziotto che ha perso la vita per colpa del terrorismo si somma la morte civile, la riconciliazione si trasforma in una beffa crudele. Sul piano dei simboli e della psicologia collettiva l’attenzione per chi rilegge senza autoindulgenza i torti passati non può che accompagnarsi al riconoscimento per chi quei torti li ha soltanto subiti e, nell’anonimato e in condizioni spaventosamente difficili, ha semplicemente assolto il proprio dovere.

 

 

 

 D’Elia non c’entra, ma che percezione serena puo avere dell’Italia la famiglia Dionisi se, sconfitto sul piano politico e militare, il terrorismo si trasfigura in epica cinematografica, letteratura, dominio sull’immaginario? Ne La meglio gioventù chi ha ceduto alla tentazione della lotta armata viene trattato con la dovuta pietas, se ne scavano le complesse motivazioni psico-ideali e le sue peripezie non vengono certo giustificate, ma ricomprese in un «contesto», trasferite in una dimensione non ignobile, questo sì. Invece il giovalie che decide di fare il poliziotto viene raffigurato come un uomo instabile e macerato da immedicabili turbe psicologiche fino al suicidio, paradossale riscatto finale per chi, anziché dalla parte del turbinoso movimento, si schierò con i reparti della Celere. Solo recentemente Achille Serra, ora prefetto di Roma, ha trasformato in racconto letterariamente avvincente nel suo «Poliziotto senza pistola» il passato di chi, con uno stipendio irrisorio, negli anni Settanta rischiava la vita senza avere dalla sua il conforto dell’opinione pubblica, dei giornali, della cultura. E’ così difficile immaginare quanta frustrazione si sia accumulata in chi, oltre ad aver perso l’affetto di chi è stato ucciso, si vede perduto e reietto anche nella dimensione della memoria pubblica e persino delle istituzioni?