RADICALI ROMA

Lettera di un romano: noi, ostaggi dei cortei

A differenza del previdente Giordano Bruno Guerri, che ne scriveva ieri su queste colonne, io non sono riuscito a dribblare la manifestazione degli studenti degenerata in guerriglia urbana. Naturalmente ho cercato di tenermi alla larga dai luoghi degli scontri, ma il ricasco – in termini di stress, tempo perso, smog, tensione – l’ho subìto ugualmente. Al pari di migliaia di poveri e incolpevoli romani. E badate che mi muovo in motorino. Ora sarà pur vero, come recita l’antico adagio, che bisogna essere rivoluzionari a vent’anni per non diventare reazionari a quaranta; e però, superati i cinquanta, potrò mai dire che quest’uso scriteriato della città, da tempo immemorabile adibita a teatro privilegiato di cortei, manifestazioni, sit-in, eccetera, sta mettendo fisicamente/psicologicamente in ginocchio anche i cittadini più ben disposti verso le cosiddette istanze sociali?

Va detto che lo stesso Veltroni, benché artefice di affollati concerti e notti bianche, ha lanciato un ragionevole grido d’allarme. Indicando in 60 milioni all’anno il costo dei disagi provocati dalle ripetute manifestazioni, anche tre-quattro al giorno, il che significa 2000 in dodici mesi, il sindaco ha posto al prefetto un problema non di poco conto: o si modificano i percorsi canonici (piazza della Repubblica, via Cavour, via dei Fori Imperiali, piazza Venezia, eccetera) dei cortei o la città non riuscirà più a smaltirne gli effetti devastanti. Non è questione di pazienza o rassegnazione. Quelle ci sono. Ma proseguendo su questa strada inconsulta rischiano di andare in tilt le regole minime della convivenza civile in una metropoli con tre milioni di abitanti. Ne volete sapere una? L’altro pomeriggio, mentre a ridosso di via del Corso provavo a raggiungere in scooter un convegno sul cinema organizzato dalla Margherita, accanto a me una signora, murata viva nella sua auto da un’ora, scoppiava letteralmente in lacrime: stava accompagnando il figlio di nove anni a una visita medica specialistica e sapeva che non sarebbe mai arrivata in tempo.

Cose del genere accadono sempre, direte. D’accordo. Ma provate voi a sbobbarvi ogni giorno una manifestazione in città, che poi significa: strade bloccate, ingorghi pazzeschi, percorsi alternativi impraticabili, appuntamenti saltati, salute messa a dura prova. Vero, dovrei essere vaccinato. È dal 1977, quasi trent’anni, che vivo qui. Vi arrivai per fare il giornalista all’Unità, nel momento più inopportuno: quando ogni pomeriggio alle 18 squadracce di autonomi si spostavano dalla vicina Sapienza a via dei Taurini, dove era la sede del giornale, per la consueta gazzarra contro il Pci «liberticida». Di sabato, invece, facevano le cose in grande: la «dimostrazione» si spostava in pieno centro, ed erano pomeriggi di fuoco, tra P38 che sparavano ad altezza d’uomo, poliziotti che non erano da meno e lacrimogeni che rendevano l’aria pestilenziale.

Intendiamoci: essendo capitale d’Italia, nonché sede del governo e dei ministeri, Roma non può esimersi dall’ospitare manifestazioni e cortei, ma il problema non riguarda le grandi adunate sindacali o politiche, di solito ordinate e inevitabili come il Natale, bensì lo stillicidio pressoché quotidiano di cortei, sit-in, proteste, neanche tutte pacifiche.

E, vi prego, che non si parli di «idea parziale della città e del suo valore d’uso», come pure fece qualche tempo fa su l’Unità lo scrittore Fulvio Abbate, prendendosela, citando il Carducci, con «l’onesta ipocrisia bottegaia» dei commercianti di via Condotti capitanati da Gianni Battistoni: «colpevoli» di aver espresso qualche preoccupazione in merito alle sfilate politiche nei centri storici. «Oh Liberté, que de crimes on commet en ton nom!», replicò pacatamente in quell’occasione Battistoni, uomo colto con amicizie bipartisan (Letta ma anche Lavia, Abbado, Accardo), riconoscendo naturalmente i diritti di chi protesta e insieme rispecchiandosi nella frase attribuita a Madame de la Platière un attimo prima che il boia rivoluzionario le mozzasse la testa un giorno del 1793.

Evidentemente non è il pur legittimo interesse dei negozianti ad essere in gioco con questa faccenda dei cortei selvaggi, bensì il diritto dei cittadini alla mobilità in una città già fiaccata da un traffico bestiale e dalla cronica inadeguatezza del trasporto pubblico. «Bisogna trovare una soluzione che garantisca il democratico diritto di manifestare e quello di tante altre persone di circolare», ha spiegato Veltroni. Al quale raccomandiamo però la lettura di una breve intervista concessa ieri al Corriere da Piero Bernocchi, storico e piazzaiolo leader dei Cobas: «Ogni volta che c’è un movimento e vedo gente io respiro», si esalta. Purtroppo siamo noi, cittadini normali, a non respirare più.