Quando, trent’anni fa, ero corrispondente de] Corriere dall’Unione Sovietica, la nostra sinistra mi accusava di essere «di destra» perché raccontavo la «vita agra» dei russi, contraddicendo la propaganda ufficiale che dipingeva il regime sovietico come la realizzazione della giustizia e dell’eguaglianza. Poiché, raccontandone le vicissitudini, ero dalla parte della gente comune, mentre la sinistra era da quella del potere costituito, io, liberale, mi sentivo «di sinistra», e la sinistra, che della gente comune non si curava, a me pareva francamente «di destra». Era lo stesso sentimento che Alberto Alesina e Francesco Giavazzi teorizzano ora nel libro che hanno titolato provocatoriamente, ma non a caso, Il liberismo è di sinistra.
Alesina e Giavazzi non hanno certamente mai pensato che il liberalismo fosse di destra. E’, perciò, tanto più significativa la coincidenza del loro pensiero con quella de) corrispondente del Corriere da Mosca di allora. Non è dunque motivo di scandalo per il liberale che essi facciano ora l’elogio del liberalismo economico, collocandolo «a sinistra» con un paradosso storico, ideologico e politico che sembra però ribadire sia pure indirettamente – l’assioma secondo il quale la sinistra ha ragione anche quando ha torto. Essi confermano semplicemente che il «paradosso liberale» era già vincente allora.
Ciò che mi preme ricordare, a questo proposito, dedicandola a tutti coloro i quali sono stali a favore del comunismo contro ogni evidenza, è la frase che un amico sovietico, perseguitato dal regime, aveva pronunciato dopo una serata di discussioni nel mio piccolo appartamento di Mosca con due esponenti del Pci che avevano difeso l’Urss: «Non dubito della vostra buona fede. Ciò che vi chiedo è di non continuare a far pagare a noi russi il vostro ritardo nel capire». Cosi, pur condividendolo totalmente, mi piace ora fare il controcanto al libro, anche a costo di correre il rischio di sembrare davvero «di sinistra», di quella storica, non di quella, riformista e liberale, che Alesina e Giavazzi vorrebbero fosse. Di fronte alla crisi della sinistra statalista e dirigista, a me pare che la cultura liberale si sia attestata su una interprelazione strettamente cconomicistica, efficientistica e riduttiva del liberalismo. Se il mercato fosse un fine e non un mezzo, quale è e deve essere, come potrebbe il liberalismo politico spiegare la contraddizione tra l’aver posto la centralità e la sacralità dell’Individuo al vertice delle proprie priorità etico-politiche e subordinare la vita degli uomini in carne e ossa ai capricci di una categoria ideologica, appunto il mercato, non dissimile da ciò che per la sinistra è l’eguaglianza o è il nazionalismo per la destra? 11 liberalismo politico è nato molto prima del liberalismo economico. Ricorda Giovanni Sartori che «Locke, Blackstone, Montesquieu, Constant non furono i teorici di un’economia del laissez faire. Essi intendevano per liberalismo la rule of law, la regola del diritto e lo Stato costituzionale; e intendevano per libertà la libertà politica».
Lo stesso Adam Smith, pur ritenendola necessaria, non considerava la libertà economica una condizione sufficiente per l’esistenza della libertà politica. Il liberista e il marxista classici si assomigliano. Ciò che li porta entrambi fuori strada è l’uso di categorie economiche per pervenire a conclusioni politiche. La natura dei rapporti di produzione e il mercato non sono «la chiave», bensì «una delle chiavi», per interpretare sia i passati totalitarismi sia le attuali società post-totalitarie.