RADICALI ROMA

Marco di fabbrica

Congresso confuso e a zigzag, quello di Radicali Italiani a Padova, ma anche obbediente alla mano invisibile di una attenta e paziente regia: caratteristiche non nuove per le annuali assise dei pannelliani, alcune gloriose e memorabili, altre forse da dimenticare. Questa di Padova non la definirei gloriosa, e forse è da ricordare solo perché vi si sono profondamente segnate le sorti della Rosa nel pugno. Per qualcuno, al secondo giorno, i congressisti apparivano spaesati e “mesti”. Chiamati a decidere sul serio di cose importanti, magari erano in quel momento tesi e chiusi nell’inquietudine: un segno di serietà che liquidava il folklore dentro cui la stampa li aveva incartati, con quella lettura pettegola della direzione radicale in cui era esploso il dissenso tra Marco Pannella e Daniele Capezzone; un evento peraltro così tempestivo da far affermare al prof. Fara, presidente di Eurispes, che grazie alla sua risonanza i radicali avevano conquistato “tutto lo spazio e visibilità mediatica possibile”.

 Il congresso doveva sciogliere due nodi: dare un nuovo assetto a Radicali Italiani, con il cambio – a stretta norma di statuto – dei vertici e il rilancio delle iniziative e delle iscrizioni; confermare o liquidare la scelta della Rosa nel pugno. In premessa, e quasi come monito a tener presente il senso complessivo della vicenda radicale, Pannella ha esordito rievocando – figurarsi! – il convegno studentesco del 1947 nel quale incontrò per la prima volta Sergio Stanzani, il goliardo con il quale (assieme anche a Franco Roccella, poi deputato radicale nel 1979) avrebbe costruito un nocciolo di democrazia liberale nell’Università, lì dove si stava plasmando una fetta della classe politica e dirigente del dopoguerra. La vicenda radicale inizia così, e prosegue in una ininterrotta saga, ricca di passioni e sentimenti magmatici, vivi ancor oggi nella gente, anonima, minuta, che viene ai congressi, che paga, che impegna una quantità di tempo, che discute, si incazza, ride e – letteralmente – piange, solo per poter votare una mozione che le dia la fiducia, o l’impressione, di influire sulla vita del paese in un senso creativo e, a volte, felicemente utopico. Il congresso radicale è davvero (che gaffe, Villetti, la tua! lì non ci sono “delegati”) un congresso di “willings”. Per ciò stesso predilige le iniziative immediate, sensibili, antagonistiche, e ama sollevarle a vere e proprie sintesi di governo. Si capisce quindi perché abbia mantenuto un pizzico di distanza dal ministro Emma Bonino che sulla Finanziaria dava un giudizio, seppur distaccato e critico, però attento alle richieste di un contesto internazionale ed europeo esigente e diffidente. Un comportamento responsabile, che tuttavia l’ha esposta alla critica capezzoniana circa il rischio – per lei, per i radicali, per la Rosa nel pugno – di diventare un mero “cespuglio” del giardiniere Prodi. Una critica che disattende mezzo secolo di lotte da cui Pannella ha ricavato la connotazione di “non coalizzabile”, chiuso nella sua solitudine autoreferenziale. Pannella “cespuglio” filogovernativo, o Pannella “non coalizzabile”? Si scelga l’uno o l’altro, insieme non convivono.

 L’insistente richiamo di Rita a Piero Welby
 
Il momento congressuale più importante è stato il dibattito sulla Rosa nel pugno, con gli interventi preoccupati di Enrico Boselli o di Roberto Villetti e quelli altrimenti appassionati di Alberto Benzoni e di Antonio Landolfi, di socialisti non Sdi come Salvatore Abbruzzese. Forse questo è il paese di cui Biagio De Giovanni ha fatto l’amaro ritratto, il paese storicamente impossibilitato a una politica occidentale e liberale. Sarà così, ma se mai si è configurata la possibilità di una spallata innovatrice, è stato con l’invenzione della Rosa nel pugno. Gianfranco Spadaccia ha invitato radicali e Sdi a superare le chiusure reciproche e ha ammonito lo Sdi a non muoversi verso il Partito democratico alla spicciolata.

 Un giudizio sul futuro dovrà però tener d’occhio il Pannella che da qualche tempo alza il tiro su orizzonti imprevedibili, invocando il “superamento di Livorno”, privilegiando un Bertinotti e magari la sinistra più dura (“vandeana”?) come interlocutori possibili su laicità e pace (la politica estera di Bertinotti più affidabile di D’Alema…). Sulla scia, Marco Cappato sollecita attenzione verso l’interlocuzione “sociale” (e non solo di Palazzo) sui temi del lavoro e affini, richiamandosi a una versione “sociale” – appunto – del liberismo. E la mozione risolleva un ambientalismo a largo spettro, con riguardo a un Piano energetico che preveda la graduale ma realistica uscita dalla dipendenza dal petrolio. Sono spunti da verificare e però, credo, non astratti o ipotetici, di una prospettiva non necessariamente chiusa nel “cantiere ingegneristico” del Partito democratico. Con la Rosa, senza la Rosa? Perché, se non è serio pensare di entrare e uscire dalla Rosa come dalla porta girevole dell’Albergo di Fiuggi dove è nata, è bene esplorare altre uscite di sicurezza.

 Tre, i filoni della mozione finale: una ripresa della pressione su Prodi e il governo perché dia risposte calendarizzate ed efficaci sui temi propri della Rosa nel pugno e di Radicali Italiani; il rilancio di questi ultimi; il futuro della Rosa stessa. La proposta di incontro con Prodi era già stata formulata in precedenza, quindi nulla di nuovo; il rilancio di Radicali Italiani non può essere questione meramente organizzativa: io presterei attenzione all’insistente richiamo fatto da Rita Bernardini al nome e alla questione di Piero Welby. Il baricentro dei radicali è sempre lì, nella tematica dei diritti civili.