RADICALI ROMA

Meno etica, più diritto

Un imprenditore non deve mai parlare di etica, deve parlare di cose concrete”, sentenzia il quotidiano color arancione. D’accordo, però con una variante: prima e più che di “cose concrete”, l’imprenditore dovrebbe parlare di “profitto”. Non so nulla di economia, ma ormai i liberisti all’americana mi hanno convinto che il profitto debba essere la stella polare di ogni vero imprenditore: è la ferrea, sana legge del mercato, con l’egoismo delle api del libertino

 

Mandeville a garantire il benessere per tutti. Se un imprenditore non massimizza il suo egoismo sarà spazzato via, con sicuro vantaggio della società.

 

 

 

Detta così è perfino banale, però anni fa in Italia si organizzavano dibattiti tra autorità religiose e industriali per definire quale debba essere l’“etica”, la “responsabilità sociale” dell’impresa. Si dirà che questo può accadere in un paese da sempre impregnato di umori anticapitalisti. E invece no, andando avanti sul foglio arancione leggo poi che negli Stati Uniti, culla del liberismo e del capitalismo “selvaggio”, il 93 per cento delle grandi imprese si è dotata di un codice etico. La diffusione di questi codici è avvenuta, negli anni Novanta, “soprattutto in

 

seguito all’entrata in vigore delle Federal Sentencing Guidelines, che hanno previsto la riduzione (…) delle sanzioni applicate ai reati federali, in caso di esistenza di un efficace

 

programma interno di prevenzione delle violazioni di legge. I codici etici sono diventati a quel punto un appetibile strumento per dimostrare (…) la sussistenza di tali programmi”. Più avanti, viene segnalato che “l’elaborazione di un codice etico (…) sembra essere diventato anche in Italia un ‘buon investimento’”. Resto perplesso: ma questa è solo convenienza, roba che appartiene alla sfera dell’“utile”, altro che etica! Comunque, come si vede e come tutti constatiamo ogni giorno, l’etica è un po’ ipertrofica, vuole intromettersi dappertutto, insiste

 

a essere riconosciuta come universale e a dettare valori e norme per tutti e ciascuno: devi appartenerle in toto, senza residui.

 

 

 

Invece, è persino facile constatare che l’etica è quanto di più personale, soggettivo e intraducibile vi sia. E’ anche aggressiva: la “mia” etica è sempre superiore alla tua e sono pronto a dimostrartelo, anche con le armi. Così si giustifica la sequela di guerre definite “giuste” dagli episcopati, dai pastori o dagli ulema del paese coinvolto. A essere invece tendenzialmente universale è il diritto, la legge. Il mirabile formalismo del “Corpus” giustinianeo è stato culla di civiltà, non superato almeno fino all’arrivo della “common law” anglosassone, col suo pragmatismo. Come ha sottilmente spiegato sere fa a “Otto e mezzo”

 

il professor Franco Cordero, quel formalismo e questo pragmatismo non si incastrano l’uno nell’altro; hanno però in comune di essere “codici” di puro e semplice comportamento: non contengono alcun “imperativo” (il “tu devi” kantiano), non chiedono nulla di più di quanto impone l’articolo richiamato dalla fattispecie. E sono, tendenzialmente, uguali per tutti. Il diritto, un codice di leggi è, più o meno, come un biglietto d’aereo, puoi farci il giro del mondo.

 

 

 

Quel biglietto comprato a una qualunque agenzia di viaggi vale dovunque; cambiano alcune norme ma il tessuto, la struttura, il linguaggio, è lo stesso: il diritto non ti impone nulla di oscuro e di inappellabile, solo ti avverte: “Se fai questo, rischi questo”. Nelle camere d’albergo, i codici penali e di procedura sostituirebbero vantaggiosamente la Bibbia, i loro articoli letti al posto dei versetti potrebbero anche far evitare qualche crimine: la minaccia della vicina

 

prigione è, malauguratamente, più dissuasiva che quella del lontano inferno. Accusato di essere mera espressione giuridica della violenza del vincitore il diritto ha in sé, infine, sempre qualcosa di contrattuale con la sua logica, universalmente comprensibile, di “do ut des”. E’ una grammatica sociale maneggevole e del tutto laica. Naturalmente, in quei viaggi ti può capitare

 

di arrivare in paesi che non hanno, o non rispettano, diritto e leggi, nemmeno le loro. Sono, evidentemente, stati dittatoriali: vale a dire, stati etici.