Pochi provvedimenti varati dal governo nei suoi primi 100 giorni, soprattutto in rapporto alle tante esternazioni dei suoi componenti. Sono stati lanciati molti segnali, non sempre voluti. Tra questi, si è data l’impressione che nel Dna del nuovo esecutivo ci sia un’avversione nei confronti del lavoro autonomo. Diverse indagini sociologiche confermano questa percezione diffusa. E non è un caso che il Meeting di Rimini quest’anno abbia dedicato grande attenzione alla difesa del lavoro autonomo.
Ma è proprio vero che i primi passi del governo siano stati una dichiarazione di guerra al lavoro autonomo? E se l’esecutivo non intende in verità perseguitare il lavoro autonomo, cosa può fare per modificare questa percezione?
Partiamo dalla prima domanda. Quel poco fatto sin qui, il decreto Bersani sulle liberalizzazioni di taxi e professioni, ha inteso colpire posizioni di rendita meno rappresentate nell’elettorato e tra i gruppi parlamentari della nuova maggioranza. C’è in questa scelta un istinto di sopravvivenza più che un intento punitivo. Il problema è che nella passata legislatura un governo meno condizionato dai veti del sindacato non ha aggredito le posizioni di rendita presenti tra il lavoro dipendente. Al contrario, ha premiato i lavoratori a bassa produttività del pubblico impiego con incrementi salariali nettamente superiori a quelli del settore privato. Di qui le «sperequazioni» nelle liberalizzazioni. Né è responsabile il modo distorto con cui da noi funziona l’alternanza al governo. Non sembra esserci intento punitivo neanche nelle annunciate misure contro l’evasione fiscale: non sono solo i lavoratori autonomi a essere coinvolti dall’intensificazione dei controlli, come si è già avuto modo di sottolineare su queste colonne. E poi, se anche così fosse, si tratterebbe semmai di misure di «perequazione», dato che sono stati principalmente i lavoratori autonomi a beneficiare dei tanti condoni varati negli ultimi anni, migliorando la propria posizione relativa rispetto ai lavoratori dipendenti.
Passiamo alla seconda domanda. Per modificare queste percezioni, il governo può fare ciò che non è stato fatto nella scorsa legislatura. Dovrà farlo se vuol far ripartire il Paese, che non è bloccato solo dalle rendite di liberi professionisti, farmacisti e tassisti. Dovrà farlo se vuole riprendere il controllo della spesa pubblica. Potrebbe riportare l’Aran (un’agenzia indipendente, in grado di resistere al protagonismo del politico di turno che vuole ingraziarsi i pubblici dipendenti) al ruolo che le compete nella contrattazione nel pubblico impiego, adeguare i salari alle differenze territoriali nel costo della vita, imporre la mobilità del personale insieme al decentramento di responsabilità di governo e approfittare del turnover naturale tra insegnanti e pubblici dipendenti per ridurre gli organici. Questo permetterebbe anche di segnalare a tutti, compresi gli autonomi, che l’esecutivo vuole risanare i conti pubblici riducendo le spese e non aumentando ulteriormente le imposte. Coerentemente con questa impostazione, l’esecutivo potrebbe anche impegnarsi a destinare ogni provento della lotta all’evasione alla riduzione delle aliquote d’imposta, mantenendo la pressione fiscale invariata, come recentemente proposto da Michele Salvati. Il patto deve essere: meno evasori = meno tasse. Non si tratta, perciò, di rinnegare o ridimensionare ulteriormente quel poco fatto sin qui, ma di fare di più. Perché le liberalizzazioni e l’applicazione delle regole, a partire da quelle fiscali, servono proprio a chi vuole assumersi più rischi. E’ proprio qui che si situano i confini tra lavoro autonomo e lavoro dipendente: chi sceglie di fare il lavoratore autonomo decide di non percepire un salario quando gli affari vanno male e non può separare il rischio di rimanere senza lavoro da quello di soffrire perdite patrimoniali a seguito del fallimento della propria impresa. Una maggiore educazione finanziaria, assieme al decollo e all’apertura dei fondi pensione ad adesione collettiva ai lavoratori autonomi, può servire a questi ultimi nel diversificare maggiormente il rischio. Ma è soprattutto importante dare loro la possibilità di ripartire nel caso fallissero. Le liberalizzazioni servono a facilitare gli ingressi, dunque offrono questa opportunità di tentare e ritentare. Il rispetto delle regole serve ad affrontare un ritardo culturale del nostro Paese.
Negli Stati Uniti chi non ha mai preso rischi e, dunque, non è mai fallito, non viene preso in considerazione seriamente dagli investitori. Da noi ingenti patrimoni rifuggono dalle nuove iniziative imprenditoriali. Il declino del nostro Paese, le sue difficoltà nel competere in settori innovativi, non dipendono da una mancanza di fondi, ma da un’eccessiva avversione al rischio degli investitori e da una offerta insufficiente di iniziative imprenditoriali. Il rispetto delle regole può servire a cambiare questi atteggiamenti. Bisogna fidarsi degli altri per rischiare. Se tutti sono obbligati a rispettare le regole, se le informazioni disponibili sul reddito di un’impresa sono attendibili, ci saranno più investitori disposti a fornirle capitale di rischio. E’ una questione di fiducia: come mostrano diversi studi, per diventare imprenditori e per finanziare i nuovi imprenditori, bisogna fidarsi degli altri.