RADICALI ROMA

‘Ndrangheta a Roma

Da Il Messaggero del 23 Luglio 2009

‘Ndrangheta a Roma

RECIDERE LE CISTI MAFIOSE NELL’ECONOMIA

Di Paolo Graldi

PECUNIA non olet. Forte di ca­pitali che ne fanno l’organizza­zione criminale più ramificata, po­tente e ricca del mondo la ‘ndranghe­ta calabrese ha puntato dritto sulla Capitale. Niente di meglio di Roma, hanno pensato alle pendici dell’Aspromonte, per riciclare denaro sporco, investire capitali acquisiti il­lecitamente, e ripulire dopo opportu­ni risciacqui somme rastrellate attra­verso un ampio ventaglio di delitti. Compreso il “pizzo”, ordinaria tassa inevitabile in almeno quattro regioni italiane (qui non sono am­messi evasori), il commercio di mer­ce contraffatta, e l’usura.

Quest’ultima, la “cravatta” infila­ta come un cappio intorno al collo di chi si fa prestare soldi al trecento per cento di interessi, va dilagando, si coniuga con la crisi economica, inter­cetta la disperazione di una moltitu­dine di piccoli imprenditori (e non solo piccoli) e diviene fenomeno con potenti rimbalzi sull’economia sa­na. Tanto che il grido d’allarme, non il primo e neanche l’ultimo, ora è lanciato dal governatore della banca d’Italia Mario Draghi, proprio ieri.

Ieri, è stata la giornata della Ro­ma dei caffe famosi nel mondo, pieni di ricordi dagli anni della Dol­ce Vita (sempre più ricordi sbiaditi): i carabinieri del Ros e reparti della Guardia di Finanza hanno tolto il velo a una ramificata organizzazio­ne criminale d’origine aspromonti­na, che s’era dedicata attraverso un sontuoso parterre di prestanome allo shopping compulsivo di ristoranti, caffe, appartamenti e auto di lusso.

Compresi, nel lungo elenco, il Café de Paris e il ristorante Geor­ges, grandi griffe d’un tempo, ora un po’ decaduti ma sempre con stem­mi nobiliari da mostrare.

Duecento milioni di immobili sequestrati, in attesa che la autorità giudiziaria, vagliate le prove fornite dalle indagini, ne autorizzi la confi­sca e ne determini la nuova destina­zione come beni dello Stato.

Certa criminalità, che pure ha mo­strato di saperci fare assai con il busi­ness, rivela ora che è messa allo scoper­to, tratti paradossali e quasi patetici.

A corto di personale qualificato, priva di agenti con tanto di laurea e di commercialisti disposti a tutto, l’organizzazione che fa, faceva e temibilmente farà, capo al clan Alvaro di Santo Stefano d’Aspro­monte, aveva affidato l’incarico di comprare questi “gioielli” a un bar­biere (meglio essere precisi: ex bar­biere) Damiano Villari, il quale aveva chiuso l’affare del Café de Paris con un assegno da 900 mila euro, accollandosi un vertiginoso pacco di debiti del famoso locale.

La questione delle infiltrazioni malavitose era segnalata da tempo. Esercizi commerciali con merce non di pregio ma allestiti in locali con affitti da capogiro nelle vie del centro storico avevano da tempo attirato l’attenzione degli investigatori.

E della stragrande maggioranza dei commercianti che vivono gli alti e bassi della crisi ma tenendo alto nome e prestigio della categoria.

Sicché, quando s’è sparsa la notizia, c’è stato come un grido liberatorio: era ora, sentivamo puzza di mafia. Bisognerà indagare ancora (e lo si sta facendo con dispiegamento di mezzi e di intelligenze investigative) per dare una dimensione compiuta al fenomeno, per isolare come cisti infette tutte le situazioni che hanno accettato o subìto la lenta infiltrazione criminale.

Negli Anni Settanta ci aveva provato la mafia che s’era alleata con la banda della Magliana e aveva invaso la città di camion di droga. Poi anche gli appetiti della camorra si sono fatti sentire.

E adesso, ma non solo da adesso, anche i clan calabresi, i più dotati di capitali, con una raggio di interessi planetari e una determinazione a delinquere (dunque anche ad uccide­re) che li iscrive ai primi posti nel Gotha del delitto.

Il silenzio apparente, il passo furbo e guardingo di questi mafiosi ha fatto sì che le radici, fortificate dal contante occorrente, si ramificassero in molte direzioni, quelle che ora vengono ripercorse affinché siano recise.

Chi invoca una task force contro questa “emergenza nell’emergenza” (le mafie vanno considerate emergenza permanente) individua la soluzione più naturale e insieme, realisticamente, la meno praticata.

Alla pioggia di encomi sulle forze dell’ordine impegnate nelle inchieste che questa e le molte altre operazioni di quest’ultimo torno di tempo hanno prodotto si deve aggiungere, meglio, ripetere, la raccomandazione che pure viene da molte parti: non abbassare la guardia. Le cosche, come i serpenti, vanno schiacciati dalla testa sennò la coda solo tagliata si riproduce.

A questi successi ha certamente contribuito la normati­va che il governo ha varato con decisione, quella rete di norme che mirano a indebolire la società dei clan e la sua capacità del mutuo soccorso internazionale proprio attra­verso il sequestro e la confisca dei beni. Solo applicando una valvola capace di togliere l’ossigeno, tutto l’ossigeno (cioè i capitali) alle cosche sarà pensabile e possibile immaginare il declino del crimine organizzato in questo Paese.

Ma dev’essere compatta e rigorosa l’intera filiera dell’attività giudiziaria, dalle indagini al giudizio.

Non sempre è stato così, troppo spesso questo filo teso si è allentato o spezzato e l’ossigeno ha ricominciato a rifluire. La macchina giudiziaria, forte di un garantismo che va comunque applicato, dev’essere in grado ed essere messa in grado di rispondere a un attacco che infetta l’intero sistema Paese.

Solo un dubbio: quante altre volte dovremo scrivere questa raccomandazione?

Dal Corriere della Sera del 23 Luglio 2009

Pericolo cosche. Il sequestro

Bar, ristoranti, uffici: la ‘ndrangheta attacca Roma

I clan controllavano anche un’impresa di pulizie. Il Pd: «Servono misure serie e urgenti»

Di Rinaldo Frignani

Bar e ristoranti di lusso. In centro, nel cuore della «Dolce Vita». Un giro di milioni di eu­ro, soldi della ‘ndrangheta rici­clati da emissari trasferiti a Ro­ma da anni. Infiltrazioni mafio­se sempre più profonde: da via Veneto a piazza Colonna, da Prati a piazza Bologna, da San Giovanni a Primavalle, fino a Vermicino. Una mappa complessa, articolata, che dimostra ancora una volta dove possono arrivare gli affari sporchi delle cosche, già presenti nei locali pubblici, nel settore im­mobiliare e perfino, a gennaio scorso, al Monte dei Pegni.

L’ultima indagine dell’Anti­mafia, dei Ros e dello Scico di carabinieri e guardia di finan­za, con il sequestro di beni per oltre 200 milioni di euro, è la conferma che l’«invasione» è in atto. Una situazione preoccu­pante al punto che ieri, da New York, lo stesso sindaco Gianni Alemanno ha esortato «a intensificare i controlli e la vigilanza: i segnali di una forte presenza dello Stato sul territo­rio devono trovare continuità, se vogliamo riuscire a vincere questa battaglia contro l’idra della malavi­ta organizzata». Ti­mori manifestati anche dalla presi­dente della Com­missione regionale sulla Sicurezza, Luisa Laurelli (Pd): «I sequestri ha spiegato – confermano la presenza consolidata della ma­lavita organizzata nel tessuto economico del nostro territo­rio. Servono misure serie e ur­genti da concertare ai vari livel­li istituzionali: non possiamo lasciare che la Capitale diventi il territorio di dominio delle cosche». «Bisogna tenere alta la guardia su un fenomeno che ormai da tempo appare molto più che preoccupante: non ba­sta certo colpire i piccoli reati per mettere paura a chi ormai smuove capitali di centinaia di milioni di euro», ha sottolinea­to invece il presidente della Re­gione Lazio, Piero Marrazzo, mentre per il presidente della Provincia, Nicola Zingaretti «la mafia non è solo un tema sici­liano. Combattere le infiltrazio­ni sul territorio è un obiettivo prioritario».

I sequestri di ieri, oltre al «Cafè de Paris» in via Veneto e il ristorante «George’s» in via Marche, hanno riguardato an­che il «Time Out Cafè» in via Santa Maria del Buon Consi­glio, al Quadraro, il «Gran Caf­fè Cellini» in piazza Cardinal Alfonso Capecelatro, a Prima­valle, il «Bar Clementi» in via Gallia, a San Giovanni, il risto­rante «La Piazzetta» a Vermici­no, il bar «California» in via Le­onida Bissolati, un altro locale «Federico I» in via della Colon­na Antonina. E poi apparta­menti al quartiere Trieste, al Torrino e a Centocelle, sedi di società immobiliari (e anche una di pulizie), magazzini, ri­messe, auto di lusso. Un lungo elenco di beni che, secondo l’accusa, sono riconducibili al «barbiere» Damiano Villari e al­l’«aiuto cuoco», Vincenzo Alva­ro, boss dell’omonina cosca di Sinopoli, nel reggino.

Mestieri di copertura per due imprenditori che i Ros ave­vano inserito già nel maggio scorso in un’informativa sotto­lineando che «Villari gode di certi e documentati pregressi rapporti con i vertici della co­sca Alvaro, e non soltanto in virtù della partecipazione al matrimonio fra Domenico Cu­trì e Grazia Alvaro, figlia di Car­mine Alvaro, detto “U Capirtu­ni”». Nel 2008 proprio Villari, che secondo gli investigatori acquistò tre anni prima il «Cafè de Paris» per 900 mila euro, si rifiutò di cederlo a un imprenditore libico: «Non pos­so venderlo – disse davanti al suo avvocato – perchè la mafia mi ha detto di non vendere…».

Tra ricordi e misteri. «Locali aperti con pochissimi clienti. E poi palazzi che si svuotano…»

Via Veneto terra di conquista mafiosa

«Ma quale dolce vita, i divi sono spariti»

Di Ilaria Sacchettoni

Al Caffè Strega, filosoficamente: «Qui le star? Macchè! I divi oggi vanno a Tor Bella Mo­naca. Alla gente piace altro, ormai. Come quei locali industriali che prima erano una fabbrica o un granaio, cose così. Era un altro mondo quello che veniva a sedersi qui in via Veneto, magari da Doney. Era lo stesso che la domeni­ca andava a messa alla Chiesa dei Cappuccini e poi correva a comprare le pastarelle. L’impor­tante è fare i conti con tutto questo e non tenta­re di resuscitare i morti» dice la direttrice.

Via Veneto carica di Suv che sgommano di fronte all’ambasciata come sulla litoranea all’alba. Via Veneto soffocata da gazebo e ingres­si conditi di ricordi e farciti di revival. Tra mar­sine e citazioni, aneddotica e memorie della ce­lebrità trascorsa. «Sarà mitica ma e sofferente – dice l’avventore di un caffè che è anche dipen­dente di un ufficio sulla strada – ormai questa strada “alza” meno del Pigneto». Chissà. Sta di fatto che i suoi immobili attirano grossi e misteriosi capitali. Malinconica e ora anche mafiosa? «Quando esplose sui giornali la vicen­da de la ‘ndrangheta al Cafè de Paris, le voci erano già diffuse. I gestori hanno mantenuto un basso profilo però niente di vistoso, eccen­trico o eclatante – dice un ristoratore storico del centro (preferendo non essere citato per nome e cognome) – del resto a via Veneto non serve. E’ un monumento per qualunque turista».

«Chi può permettersi di spendere milioni di euro per l’affitto di un locale in una delle stra­de più valutate della città?» «Parliamoci chia­ro – dice ancora Gabriella, moglie dell’edicolan­te storico di via Veneto – questa è una strada misteriosa. Palazzi che si svuotano improvvi­samente. Antichi caffè che restano in piedi an­che quando ormai i clienti sono poche decine. E questo mito che viene tenuto in piedi non si sa più come e perchè».

E dunque solo Fellini è rimasto al suo posto, fotograficamente parlando, tra il bancone e i registri di cassa dell’ex latteria trasformata (nel ’50) in «Cafè de Paris». Fellini che legge, Fellini che osserva, Fellini che ascolta. E anco­ra: Fellini accigliato, Fellini premiato, Fellini che ride. Ma nel leggendario locale creato da Vittorio («Victor») Tombolini, carezzevole an­fitrione di intellettuali, scrittori e giornalisti (oltre che gran barman) ci sono solo uomini dei Ros e della Guardia di Finanza. Chissà co­sa avrebbe detto Victor degli Alvaro. Morto a novantasei anni (nel giugno del ’99) tra i rim­pianti, incluso quello del suo affezionatissimo cliente Igor Man che, su «La Stampa», lo ricor­dava come uno dei «Grandi Vecchi» assieme a Mario Soldati, quasi alla pari.

Indecifrabile via Veneto. Dalla trasgressio­ne transoceanica di Ava Gardner e Gene Tier­ney si è passati ai night club con lap dance a conduzione familiare. Dai tavolini esterni per catturare il ponentino si è passati alla maxi-pedana abusiva (fu demolita nel 2006 ma ci volle­ro quattro anni di ricorsi dell’amministrazio­ne).

Fra caffè monumentali tenuti in vita con il respiratore artificiale dell’ happy hour, palazzi grandi quanto un isolato (ad esempio il civico 96) vuoti e con le vetrine impolverate da oltre un anno. «Dicono ci venga l’Emporio Armani: sarà vero?» chiede una signora davanti a una gastronomia laterale. Versace, d’altra parte, c’è già e dunque tutti immaginano (sperano?) un epico duello stilistico tra storici avversari del glamour made in Italy, almeno per una ri­presa commerciale della via.