I nuovi poveri avanzano geograficamente e numericamente occupando argini di fiume, piloni di tangenziale, grotte o radure. Baracche, teloni e cartoni sembrano una caparbia conferma al diritto all’esistenza, prima che un ricovero. Un diritto ribadito a costo di violare regole urbanistiche e topografiche che per chi è ai margini appaiono promulgate per tutti gli altri.
“Aumenta il numero dei poveri e il rischio di scivolare nella povertà – indica l’assessore alle Politiche Sociali di Roma, Raffaela Milano – arrivano ai nostri servizi persone che un anno fa non avrebbero mai pensato di chiedere assistenza”.
A Roma duemila persone vivono in strada; altre otto-novemila in auto, baracche, accampamenti. Un’ondata di disperati, nonostante gli sforzi dell’associazionismo (fra cui Comunità di Sant’Egidio e Caritas) e del Comune che negli anni ha moltiplicato i posti di accoglienza (4200 i posti per le emergenze immediate e 15mila per quella abitativa) e diversificato gli interventi, allestendo, tra l’altro una Sala Operativa Sociale (800.440022).
Finire in strada non è così difficile. Per gli italiani basta perdere il lavoro, separarsi dal partner, non pagare l’affitto per un mese e, se non si hanno risparmi e il sostegno della famiglia o di un amico, la situazione può degenerare. Per gli immigrati è ancora più facile: è sufficiente che allo ‘smorzo’ – dove ogni mattina si offrono al caporale le braccia per il lavoro quotidiano – non si venga scelti per giorni, che il datore di lavoro italiano truffi e non paghi, come spesso accade, che l’anziana cui si badava muoia e i 300 euro per il posto letto divengono una spesa insopportabile.
Ma c’è anche il caso di chi, come Lucien, romeno, 25 anni, non può accettare la regolarizzazione della ditta dove lavora perché vive in una baracca, non ha residenza, e per la legge senza residenza non si può regolarizzare. E rischia il lavoro.
Il problema non è di Roma, è generale, ma nella Capitale le situazioni al limite sono proprio lì dove non te aspetti, appena girato l’angolo. Ad esempio a Monte Mario: a due passi dal tribunale di piazzale Clodio si apre una vera e propria favela in cui, fra gli altri, vive Alfered, unici averi una radio malconcia, un ricambio, una coperta e un coltellaccio, il tutto impacchettato in una baracca allestita con materiale di risulta. Ha le braccia coperte di tatuaggi: glieli hanno fatti in galera, in Polonia, dove è efinito lasciato il suo Paese d’origine, la Romania.
Vive con una quindicina di connazionali, con donne e bambini: fango, bucato e baracche per gente che vive di piccoli furti, espedienti, elemosine. Paradosso metropolitano: a 50 metri il mercato immobiliare quota un metro quadro 10mila euro. A 100 metri c’è la villa di Cecchi Gori, a 150 un hotel esclusivo, Heinz Beck vi inventa costosissime soluzioni gastronomiche.
Il degrado estremo, quello che deriva dalla fame di casa non risparmia via Tiburtina: in una grotta naturale vive una comunità di una cinquantina di romeni. Niente energia elettrica né acqua corrente, niente bagni chimici. Maria, 24 anni, è nella semioscurità da oltre due anni. Divorziata, ha lasciato a sua madre in Romania il bimbo di cinque anni. A Nord-Est, a Ponte Mammolo, in un immenso campo nomadi di zingari, rom e serbi c’è uno spazio privato e recintato dove famiglie di immigrati pagano 250/350 euro mensili per stare in container. Sembra un paradiso rispetto all’esterno, eppure sono solo lamiera e vetroresina colorate. Gli occupanti hanno sguardi disperati: Gabriella ha lasciato nel suo Paese una figlia malata: “Per tre anni ho lavorato come badante per una anziana, da quando è morta non lavoro più…”, piange e racconta. Tangenziale Est, a meno di tre chilometri dal quartiere Parioli: quattro romeni, un’ucraina e un bambino di tre anni vivono dietro teloni dove hanno costruito una baracca nell’angolo di un pilone di una rampa, chiusa tra la ferrovia e le auto. Vivono lì da dieci mesi. Poco più avanti si è sistemato il padre di uno di loro.
Anche lungo la Nomentana ci si arrangia come si può: potrebbe sembrare una casa di vacanze se non fosse sorta davanti ai binari del treno vicino all’argine dell’Aniene, o l’idea di uno stravagante architetto. È la casa di Anna e Joseph, slovacchi, realizzata interamente con bottiglie di birra. Abitano qui con i due figli, Annamaria e Marco, entrambi nati in Italia. Non avevano soldi per i laterizi, hanno pensato di sfruttare l’unica risorsa disponibile: i vuoti delle bottiglie scolate dagli amici.