RADICALI ROMA

Niente funerali a Welby, su Avvenire sfogo dei lettori

Mio marito peg­gio di Pinochet? Non posso cre­derci». Mina Welby sta preparan­do la cena e non ha letto ancora Avvenire. Non ha letto la polemi­ca esplosa tra i lettori cattolici su quei funerali negati dal Vicariato di Roma a Piergiorgio Welby, l’uo­mo malato di distrofia muscolare progressiva che ha ottenuto, con l’appoggio dei radicali, la morte per sospensione del respiratore artificiale. Quella polemi­ca, però, a Mina Welby l’hanno raccontata. E lei vorrebbe liquidarla così: «Non ho parole».

 

 

 

Ieri il quotidiano dei ve­scovi ha dedicato infatti al caso Welby un’intera pagina ospitando alcune delle tante lettere dei let­tori. Lettere per lo più di prote­sta, dove per quel rifiuto si espri­mono «sgomento», «perplessità», «incredulità», «dolore» e «disa­gio».

 

 

 

Scrive ad esempio Don Seba­stiano Giachino, da Torino: «A Pi­nochet, dittatore sanguinario e torturatore, solenni funerali in chiesa. A mafiosi, criminali, vio­lenti e stupratori Santa messa in chiesa adorna di fiori e con note di organo. Al povero figlio di Agnelli, morto suicida, esequie nella parrocchia di Villar Perosa. A Welby, no… Un giorno potrem­mo ricevere il rimprovero di Gesù ai farisei: guai anche a voi, dotto­ri della legge, che caricate gli uo­mini di pesi insopportabili, e quei pesi non li toccate nemmeno con un dito».

 

 

 

La risposta è arrivata sempre ieri dal direttore di Avvenire, Dino Boffo. Che si è limitato a ribadire la posizione del quotidiano. Scrive Boffo: «Anche alla morte di un farabutto o di uno stragi­sta, anche a quella del peggior ti­ranno, vanno concesse le esequie religiose perché magari nell’estre­mo punto di morte potrebbe es­sersi pentito». Ma quando «la propria uccisione è lucidamente chie­sta per settimane e mesi» e si cer­ca «la propria morte nell’unico modo che il Dio cristiano non vuo­le», pur assicurando le sue pre­ghiere, «la Chiesa poteva assume­re solo la posizione che ha preso».

 

 

 

Troppo, per Mina Welby. La moglie di Piergiorgio non vorreb­be polemizzare. Non è nella sua natura. Ma il paragone tra suo marito e «i farabutti» non è facile da ignorare: «Non ho parole. La verità è che cercano solo di mette­re paura alla gente, agli stessi cat­tolici. Un’operazione simile l’han­no fatta con il referendum sulla fe­condazione: anche in quel caso le persone sono state intimorite. E adesso, si brandisce la parola eu­tanasia come un’arma».

 

 

 

Mina Welby è cattolica. E spie­ga che nonostante la posizione as­sunta dal Vicariato di Roma sulla morte di suo marito, lei è riuscita a non allontanarsi da Dio: «Anzi, il mio rapporto con lui si è appro­fondito: Dio è buono, non è come certi personaggi. La Chiesa do­vrebbe essere più evangelica e meno cattolica. O meglio, meno amministrativa. E meno politica».

 

 

 

E anche dietro quest’ultima presa di posizione di Avvenire Mi­na Welby identifica tracce di «politica». E di incapacità «di capire cosa è realmente accaduto a Pier­giorgio: la sua vita non era più una vita. Con l’autopsia si vedrà quanto stava male e a che punto di orrore si era arrivati. Lui vole­va vivere, ma tecnicamente non era più possibile. Desiderava solo una morte più dolce. E l’ha avu­ta, grazie all’aiuto del dottor Ric­cio. Per la Chiesa, chiedendo di mettere fine ai suoi dolori Pier­giorgio ha commesso un pecca­to? L’assoluzione gliel’avrà data Dio, ne sono sicura. Perché qua­lunque cosa dica la Chiesa, que­sta resta una storia tra noi e Dio».