Diceva Luigi Einaudi che «i nuovi ceti, i quali giungono al potere, trasformano, insieme con gli altri, anche gli istituti tributari in conformità dei nuovi miti e dei nuovi ideali a cui essi hanno dovuto la loro ascesa». Ed è proprio a questa prova che si trovano chiamati Governo e maggioranza in queste ore: dimostrare quali siano i “miti” nei quali si riconoscono, precisare a quali “ideali” si ispirano nella propria azione.
Se terranno fede all’indicazione di voler aumentare le tasse sul ceto medio, la risposta sarà stata chiara: il mito è quello del ceto medio perfido perché tendenzialmente votato all’evasione fiscale, l’ideale quello dello Stato impiccione, le cui dimensioni si riflettono nelle grandezze della spesa pubblica, quella sì impossibile da riportare sotto controllo. Magari perché, spiegherebbero Einaudi e gli scienziati sociali, riportarla sotto controllo significherebbe minacciare privilegi, colpire corporazioni e intaccare parole d’ordine consolidate.
Sull’aumento dell’aliquota fiscale per i redditi superiori ai 70mila euro infuria in queste ore la battaglia, che sapremo presto da chi sarà stata vinta. Molto è stato già scritto, anche su queste colonne, per dimostrare o per ribadire quanto quella misura possa risultare controproducente, sia dal punto di vista dell’equità fiscale che da quello della lotta all’evasione.
Mi posso limitare perciò a sottolineare due aspetti. Anche a sinistra, politici, economisti e giornali accorti — come, rispettivamente, Filippo Penati, Michele Salvati e «Il Riformista» — hanno notato quanto contraddittoria risulti questa linea rispetto a quell’offensiva della simpatia che il centro-sinistra aveva avviato, subito dopo le elezioni, nei confronti dei ceti produttivi del Nord. Dico “aveva”, perché negli ultimi mesi l’entusiasmo iniziale pare molto annacquato: le visite al Nord si sono diradate; e il sindaco di Milano, Letizia Moratti, ha dovuto richiamare il Governo perché rispetti gli impegni presi con la sua città.
E facile immaginare, per esempio, come i percettori di redditi solo di poco superiori alla fatidica soglia dei 70mila euro abbiano gradito la pubblicità di Rifondazione comunista nella quale li si addita quali proprietari di panfili leggendari: loro, probabilmente reduci dai salti mortali che hanno dovuto fare per assicurare, col favoloso reddito di circa 3mila euro al mese, due settimane di vacanza alla propria famiglia.
La seconda osservazione riguarda l’obiettivo, indicato ieri da Romano Prodi alla Camera, di riformare il capitalismo italiano: «Vaste programme», avrebbe commentato il generale de Gaulle. Romano Prodi conosce benissimo le virtù creatrici del capitalismo che, certo, va governato ma sa fare benissimo da solo nello spazzare via quanto c’è di inutile e di vecchio e nell’alimentare mobilità e innovazione. Un capitalismo che funziona è per definizione un capitalismo che si rinnova continuamente. Ma ha bisogno di qualche presupposto: della minore collusione possibile fra imprese e politica, tanto per cominciare.
Poi, di uno Stato leggero, snello ed efficiente, che assicuri quei servizi (in primo luogo, istruzione e giustizia) nei quali si realizzano i diritti di cittadinanza; e perciò pronto a rinunciare a presenze e incombenze che lo distraggono da quegli obiettivi: uno Stato alla Blair, insomma; uno Stato che piaccia agli elettori svedesi, che non rinnegano il welfare ma chiedono più margini di libertà.
lnfine,diunsistemafiscale che incentivi al lavoro e all’iniziativa, e quindi promuova, senza bisogno di circolari ministeriali, il rinnovo continuo del tessuto produttivo e delle iniziative imprenditoriali. Rinunciando a miti e ideali volti a perpetuare un sistema statico che per definizione si fa, allora sì, implacabilmente classista.