«Saddam Hussein non deve essere condannato a morte. Per questo, senza voler mettere il nostro cappello sulle campagne di tante associazioni non governative, credo anch’io che sarebbe servito un altro processo rispetto a quello che si sta svolgendo in Iraq nei confronti dell’ex dittatore». Nonostante sia impegnato giorno e notte nella costruzione del nuovo soggetto radical-socialista, Marco Pannella non trascura le battaglie radicali in campo internazionale. Una voce al di sopra di ogni sospetto, quella di Pannella: «Proprio noi radicali – dice – che siamo sempre sospettati di essere amerikani con la kappa e Sharoniani con la esse maiuscola, ci troviamo spesso e volentieri da soli quando si tratta di contrastare i problemi che emergono con questi due punti di riferimento». Ad esempio con gli Stati Uniti. «Sul piano tecnico-giuridico del processo a Saddam – è la premessa pannelliana – si può sostenere tutto e il contrario di tutto». Ma su quello politico-giuridico, prosegue, «noi, che siamo stati promotori del tribunale speciale ad hoc sulla Jugoslavia e della Corte dell’Aja sosteniamo che sia profondamente sbagliata la linea che l’amministrazione amencana sta tenendo da alcuni anni a questa parte: quella di contrastare con ogni mezzo, soprattutto quello degli accordi bilaterali con i governi, le ratifiche del Tribunale penale internazionale». Per Pannella il processo all’ex raìs si sarebbe dovuto svolgere «in sede internazionale» perché, spiega, «quello in corso in Iraq assomiglia pericolosamente al processo di Norimberga e non tiene conto delle evoluzioni del diritto internazionale maturate nel corso degli ultimi sessant’anni». Sul fronte dei diritti umani, il governo di Baghdad ha perso un’occasione. «In un primo momento – ricorda Pannella – sembrava che il governo provvisorio iracheno avesse deciso di aderire al trattato per il Tribunale penale internazionale e di abolire la pena di morte. In seguito, invece, si è deciso di assecondare i desideri americani. Tutto questo mentre le stragi di quelli che molti chiamano
”insorgenti” rimangono spesso impunite». Quello della pena di morte «non è solo un problema di Saddam, ma coinvolge l’intera società statunitense. In questo senso c’era la possibilità che una moratoria passasse a maggioranza all’interno dell’Assemblea dell’Onu. Alla fine, ha prevalso il riflesso servile non richiesto nei confronti dell’amministrazione americana».
Il dibattito sulle sorti di Saddam Hussein coinvolge molti intellettuali liberal non contrari alla guerra in Iraq. Sostiene Giovanni Sabbatucci: «Sarei disposto a sottoscrivere un appello di condanna a tutte le condanne a morte. Nel caso di Saddam, credo, ahimè, che sarebbe una battaglia già persa in partenza visto che a decidere sono iracheni e americani, tutt’altro che contrari alla pena capitale». Secondo lo storico, «ci vorrebbe un processo equo. Ma in questi casi sono sempre le vittime chiamate a giudicare i propri carnefici, così come successe a Norimberga. Detto questo, comunque, quello a Saddam è sempre meglio di un processo sommario». Anche Massimo Teodori condivide i dubbi di Sabbatucci. «Credo che non ci si possa aspettare molto da un processo in cui si intrecciano questioni giudiziarie e questioni politiche. Il vantaggio sarà ricavare la maggiore informazione possibile sugli eccidi commessi dall’ex dittatore. Riguardo all’esito finale, il mio auspicio è che Saddam non venga giustiziato. Spero, però, che venga condannato al carcere a vita, da scontare magari in esilio, in un paese diverso dall’Iraq».«Qualsiasi imputato, e quindi anche un ex dittatore, ha diritto a un processo equo», aggiunge Piero Melograni, secondo cui «il problema, più che la pena di morte in se stessa, è il messaggio da dare al popolo iracheno. La ragion di stato è superiore a qualsiasi principio giuridico». Più prudente Gaetano Quagliariello, presidente della fondazione Magna Carta: «Prima di dare un giudizio aspetterei di vedere le carte processuali. Perché o il rifiuto della pena di morte è una posizione ideologica, che quindi deve valere per tutti gli uomini, oppure visto che stiamo parlando di un processo che contempla anche la pena capitale, esprimersi aprioristicamente contro la condanna a morte rischia di diventare una posizione transigente nei confronti dei crimini commessi da Saddam». Come ha scritto sull’Avanti il sottosegretario agli esteri Margherita Boniver, l’eventualità di una condanna a morte «rappresenta un grave problema».