RADICALI ROMA

Partita radicale / 2

La splendida pagina di Adriano Sofri sulla “Partita radicale” (Il Foglio del 28 febbraio, ndr) potrebbe essere occasione propizia per un serio dibattito sulla “questione politica” che lui solleva, cioè le sorti della “galassia” di soggetti che si raccoglie sotto il nome di radicale. Anche perché la pagina arriva in coincidenza con la campagna aperta da Marco Pannella – “radicali, o li scegli, o li sciogli” – che ha come duplice obiettivo il raggiungimento di almeno 5.000 iscritti a Radicali italiani e l’ambizione di provocare una “landslide” di qualcosa come 200.000 nuove adesioni alla creatura prediletta da Marco stesso, il Partito Radicale Transnazionale. Scommessa senza ritorno, pare: in caso di fallimento è già scritta la parola “fine” del progetto radicale nella sua storica configurazione. L’intreccio temporale tra le analisi di Sofri e la sfida di Pannella è, credo si possa dire, un altro piccolo (o grande, fate voi) segno dei tempi che viviamo, che vive il paese, con una crisi infinita del sistema istituzionale, del governo e della stessa politica, sempre più bisognosa di una fantasia coraggiosa, costruttrice di nuove prospettive e di nuove dinamiche. Proprio quel che non manca a chi solo ieri ha introdotto nell’asfittico mercato politico italiano il colpo d’ala della moratoria della pena di morte e i grandi temi etici del nostro tempo, con Coscioni e Welby: offerte così pregnanti da consentire ad Adriano Sofri di porre di nuovo al centrosinistra la questione se essere o no un soggetto politico non disattento “ai diritti e alla lealtà di tutti”, accettando oppure sbattendo la porta in faccia ai pannelliani.

 Su questi piani, sostanzialmente, Sofri analizza, discute, propone. Ed ecco che ora Massimo Teodori interviene buttandosi lì a rimestare vecchi cliché, dolori esistenziali ma anche, purtroppo, analisi storiche e politiche male assortite. Non usa i termini di Daniele Capezzone, quelli del Pannella vittima della sua ansia, intollerante gestore dell’aggressione, del “mobbing” ai suoi danni, e così via: li peggiora, perché quelle di Capezzone sono almeno calcolate astuzie da giocare sul piano della tattica politica. La requisitoria con cui Teodori salta (non è la prima volta) sul bandwagon di quanti esercitano il meglio (o il peggio) di se stessi nel tentativo di sfregiare una icona alla cui costruzione essi stessi hanno dato mano è colma di incongruenze. Non si capisce come una figura che – dice lui – avrebbe potuto essere “tra i leader europei del calibro di Palme, Mitterrand, Blair o Zapatero” si sia potuta ridurre alla dimensione di grottesco masochismo su cui viene schiacciata; e come possa essere “una tragedia di immense dimensioni politiche” il “tramonto”, la “lunga agonia” di un personaggio carico dei torti, dei difetti etici imputati a Pannella – tipo il “dispotismo totalitario e cinico nella dimensione politico-personale” – con i quali, dopo aver fatto “terra bruciata” e “desertificato” tutto e tutti attorno a sé, egli “ha presidiato il suo territorio politico e ideale perché null’altro potesse nascervi”. Infine: il “tramonto” pannelliano su cui “piange” Teodori sarebbe iniziato “una ventina di anni fa”. Suvvia, il paziente sta ancora lì, da protagonista, anche se ammaccato e affaticato.

 Due “non coalizzabili”
 
Marco Pannella è da tempo immemorabile accusato da Teodori di essere “non coalizzabile”, refrattario ad alleanze e commistioni. Penso sia stata una scelta responsabile, ma anche obbligata, seguire la strada dell’iniziativa corsara cara a Pasolini. Non frutto di “culturismo” ma di “meditata cultura politica”. Mai capìta nelle sue motivazioni, è stata osteggiata da quanti avrebbero voluto che Marco facesse le cose che loro volevano scaricare sulle spalle. Quando lui si è rifiutato, quei critici non mi pare siano stati capaci di fare alcunché delle cose che volevano Pannella facesse. Sono divenuti magari buoni commentatori politici, però di una politica non fatta da loro.

 Ci sono, e dio sa quanti, gli errori di Pannella. Ma quel che lui paga è soprattutto una solitudine forzata, la solitudine di chi coltiva un disegno ambizioso, fors’anche “megalomane”, come dice Sofri che però mostra di capirlo e persino di amarlo. E’ il destino storico che ha colpito, per dire, la Grande Riforma craxiana, bloccata da un regime feroce contro chiunque tentasse di opporglisi: è forse, penso con amarezza, il destino che potrebbe abbattersi sulla lunga battaglia pannelliana per l’instaurazione dello stato di diritto, uno stato che non neghi a Sofri almeno la grazia dopo l’ingiusta condanna. Se solitudine è, quella di Marco mi pare la stessa solitudine di Adriano. L’uno come l’altro ha inciso nella carne viva del paese, nella sua storia e nel tracciato del suo domani, una impronta libertaria di promozione della persona o, se volete, dell’individuo (e magari del cittadino). E questa vicinanza, di amicizia, di militanza, di intensi colloqui – anche sulla vita e sulla morte, come ricorda Sofri – non è casuale che filtri oggi attraverso le pagine di un giornale come questo.