RADICALI ROMA

Pensioni e welfare: il governo Prodi non può permettersi di sbagliare

La eventuale abolizione dello scalone pensionistico da parte del Governo Prodi rappresenterebbe un grave errore, tale da compromettere irrimediabilmente la stabilità delle finanze pubbliche, il futuro delle fasce più deboli della popolazione – in particolare dei giovani e dei pensionati al minimo – e la costruzione di un sistema di ammortizzatori sociali di tipo universalistico, che persegua la liberazione dal bisogno integrando la necessaria flessibilità con politiche ispirate al modello del welfare to work, a partire dalla creazione di un “reddito minimo garantito”, come già previsto nel programma elettorale della Rosa nel Pugno. Il vero e proprio potere di veto, ideologico, che la corporazione sindacale e la sinistra comunista e massimalista, dentro e fuori dal governo, pretendono di esercitare, con la richiesta – la sola – di abolire lo “scalone”, fa leva sulla assoluta disinformazione che impedisce ai cittadini italiani di conoscere la reale situazione e l’importanza della posta in gioco.


La spesa pensionistica del nostro Paese assorbe circa il 15% del prodotto interno lordo, e i due terzi della spesa sociale sono assorbiti dalle pensioni
. Mentre la vita media continua ad allungarsi, l’Italia, anche se non venisse toccato lo scalone, avrebbe l’età pensionabile più bassa tra i Paesi dell’Unione europea, 60 anni, oltre ad essere l’unico Paese a non avere almeno programmato la parificazione, proposta dal Ministro Bonino, del requisito anagrafico tra uomini e donne, con grave discriminazione nei confronti di queste ultime. Tutte le riforme che, sin dagli anni Novanta, sono intervenute sulla previdenza, da Amato, a Dini, a Maroni, sono andate nella direzione giusta, ma sono state accomunate da un errore grave, prevedendo condizioni di particolare favore per chi era più vicino alla pensione, e scaricando sistematicamente il loro peso sulle spalle delle generazioni più giovani, che si vedranno corrispondere pensioni da fame o non percepiranno alcuna pensione, mentre i loro contributi, una volta finiti nel calderone del bilancio dell’Inps (in cui sono ammessi trasferimenti da una gestione all’altra), vengono utilizzati per pagare le pensioni dei loro genitori. In questo modo, le premesse per un conflitto tra generazioni sono sempre più forti.

Coloro che oggi accusano lo scalone di iniquità, sono quei sindacati e quei partiti comunisti che, nella precedente legislatura, rifiutarono la sua entrata in vigore, allora possibile con maggiore gradualità, sin dal 2006, e ne imposero il rinvio al 2008. Per il bene delle future generazioni, non è più possibile proseguire nella politica dei rinvii, in una sorta di scaricabarile intergenerazionale, ma è necessario procedere sulla strada delle riforme. Il Presidente del Consiglio lasci che a parlare siano i dati, e che i dati vengano conosciuti: quello “scalone” che per Epifani, Angeletti, Bonanni, Ferrero, Damiano, Giordano, è divenuto il “nemico pubblico numero uno”, è stato, nei fatti accettato dagli uomini e dalle donne del nostro Paese. Nel 2006 le nuove pensioni effettivamente liquidate sono state inferiori di circa settemila unità rispetto a quanto preventivato dallo stesso ente previdenziale. Nessuna “corsa alla pensione”, quindi, di chi poteva rifugiarvisi; per contro, il sacrificio che si chiede a chi, non avendo alternative, dovrà attendere tre anni in più, vede nell’interesse generale, solo che sia conosciuto, una motivazione condivisibile anche da queste persone, che potranno comunque godere di un trattamento di gran lunga più vantaggioso rispetto a quello di cui beneficeranno i ventenni e i trentenni di oggi.

È necessario guardare in faccia la realtà: se verrà abolito lo scalone, ossia se si rinuncerà ai miliardi di euro, da 9 a 65, che lo scalone consentirebbe di risparmiare nei prossimi anni, l’unica strada per reperire le risorse necessarie al welfare sarà quella, dissennata, insostenibile, di un ulteriore aumento della pressione fiscale. La proposta che sin dal 3 aprile scorso abbiamo depositato in Parlamento (Atto Camera n. 2484), se approvata, scongiurerebbe questa eventualità: si prevede il mantenimento dello scalone e un ulteriore e graduale innalzamento dell’età pensionabile, al ritmo di “un anno ogni due”, fino a 65 anni per tutti, uomini e donne, entro il 2018; in tal modo si risparmierebbero, a regime, fino a 7 miliardi di euro ogni anno, da utilizzare per la contestuale riforma del welfare. Proseguire sulla strada tracciata dallo scalone vuol dire poter disporre, in tempi e ammontare certi, delle risorse disponibili per costruire quel sistema di welfare di tipo universalistico da sempre atteso in particolare dai più deboli, ma del quale non sono state ancora poste neppure le premesse. L’ipotesi di riforma della Cassa integrazione allo studio del ministro Damiano rischia, piuttosto, di perpetuare e di aggravare quel sistema, da sempre denunciato in totale solitudine dal movimento radicale, di privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite che ha succhiato oltre 250mila miliardi di vecchie lire dalle casse dello Stato, senza che un solo posto di lavoro venisse salvato. Quella che si profila è la prosecuzione della “politica dei parcheggi”, con la difesa astratta di posti di lavoro ormai esistenti solo sulla carta, invece della difesa concreta dei lavoratori. L’alternativa, ancora una volta, è tra la riforma e la controriforma. Quanto sta accadendo sulle pensioni altro non è che la riproposizione della cronica incapacità dei governi di costringere le domande sociali all’interno delle risorse disponibili, incapacità che è stata il fattore decisivo nel determinare la formazione dell’enorme debito pubblico italiano, ossia della vera ipoteca che grava drammaticamente sulle generazioni presenti e future.

Solo se il governo – e tutti gli attori politici e sociali che ritengono doveroso impedire l’ulteriore declino dell’economia italiana – vorrà e saprà informare i cittadini della reale situazione, i veti irresponsabili dei sindacati e della sinistra comunista e massimalista potranno essere battuti con una politica liberale e riformatrice. In caso contrario, rischiamo tutti di andare a sbattere, il centrosinistra di essere escluso dal governo per molti anni, e il Paese di essere riconsegnato a un centrodestra illiberale, corporativo e conservatore, che non a caso sta accuratamente evitando di intervenire nello scontro in atto.