Le cronache riferiscono di vivaci polemiche al vertice dell’Aci, Automobile Club d’Italia: un presidente, che si ritiene ingiustamente estromesso, dà battaglia in giudizio. Senza lasciarsi avviluppare in tali contese, è questa un’occasione per chiedersi piuttosto cosa sia oggi l’Aci e se esso abbia ancora un senso. Certo, la permanenza in vita dell’Aci rassicura; come le care cose di pessimo gusto di Gozzano, qualche baluardo continua, rassicurante Cynar, a difenderci dal logorio della vita moderna. Passano due guerre mondiali, il fascismo e sessant’anni di democrazia, ma l’Aci è sempre lì, come ai tempi di Bava Beccaris, per «rappresentare gli interessi dell’ automobilismo italiano» e promuovere «provvedimenti idonei allo sviluppo dell’ automobilismo».
L’Aci è un ente pubblico senza scopo di lucro, ma a quale interesse pubblico esso serva oggi, non è chiaro: chi guardi alle nostre belle città, strangolate dalle auto, converrà che lo «sviluppo dell’automobilismo» è obiettivo, più che superato, da evitare come la peste. Il suo sito web fa notare che l’Aci vanta oltre un milione di soci, effettua seicentomila interventi di soccorso e tiene il Pubblico Registro Automobilistico (Pra); peccato che il governo stia cercando giustamente di abolire il Pra, e che il soccorso, sola ragione della falange di soci, possa essere svolto anche dai privati.
L’Aci, è vero, è solo uno dei luoghi (un altro è quel capolavoro che risponde al nome di Unire, Unione Incremento Razze Equine, e non solo), su cui occorre accendere il faro dell’attenzione, ma è pur sempre l’esempio perfetto di un piccolo tesoro che l’opinione pubblica, certo per colpa sua, ignora; esso costituisce quindi un buon inizio del lavoro volto a smantellare i piccoli feudi che bloccano la nostra società.
Dato che sono i soldi che fanno la guerra, guardiamo allora l’aspetto economico, sul quale il sito mantiene un dignitoso riserbo: sarà colpa della solita legge sulla privacy. L’Aci è senza dubbio in regola con la legge, ma è singolare che il sito non dia alcuna informazione finanziaria, tanto meno il bilancio consolidato. Tale ottocentesco approccio potrebbe causare imprecisioni nella sommaria ricostruzione qui possibile: speriamo comunque che all’Aci abbiano scoperto i computer e non intingano ancora la penna d’oca nel calamaio alla luce delle candele, per vergare sul mastro le scritture. Nel 2005 l’ente pubblico ha conseguito ricavi per 330 milioni, quasi pareggiati dai costi, dato che l’Aci era allora in perdita per 800 mila euro (ma il pagamento di 21 milioni di tasse fa pensare che i margini siano più grassi). Il bello viene dopo, dato che esiste anche un «gruppo Aci», forte — oltre che di una fondazione — di ben tredici società, ognuna doverosamente provvista di organi sociali. Fra queste, due compagnie assicurative che incassano premi superiori al miliardo di euro, con buoni margini, mentre otto delle altre undici società fatturano altri 220 milioni con margini operativi lordi di circa 20 milioni.
Ipotizziamo pure (ipotetica del terzo tipo), che il Pra sia indispensabile e che questa e altre funzioni pubbliche richiedano davvero 10 mila dipendenti; anche ammesso, con sforzo erculeo, che tutto ciò sia vero, a cosa serve l’esistenza di un «gruppo Aci» che opera in concorrenza coi privati? Se si vuol rendere servizi al milione di soci, perché limitarsi a due compagnie assicurative? Perché non fare anche un paio di banche per loro? O un grande studio legale per difendere i loro interessi in sede giudiziaria?
La conclusione è semplice: senza attendere la complessa trafila necessaria a smantellare un ente pubblico superfluo (come diceva un vecchio sketch televisivo «qui stannno ancora a liquidà i danni dell’elefanti d’Annibbale»), si può, meglio, si deve, cedere ai privati, con trasparente procedura d’asta, tutto il «gruppo Aci». Lo si può fare, e in fretta, senza dover passare per la cruna dell’ago del voto in un Senato divenuto ormai ricettacolo di minimi ricattatori pseudopolitici, delle cui epiche gesta il popolo italiano saprà pur ricordarsi, a tempo debito.