Non avevamo torto quando in tempi non sospetti tirammo fuori i cartelli con la scritta “No vatican, no taliban”. Le ultime posizioni delle gerarchie ecclesiastiche, favorevoli all’insegnamento della religione islamica a scuola (cioè ad un’altra forma di indottrinamento, oltre a quella cattolica, cui sottoporre gli studenti), da un lato evidenziano in modo inconfutabile il legame che, con l’obiettivo di limitare e colpire le libertà individuali, accomuna i vertici delle due religioni più diffuse nel mondo, dall’altro rivelano quanto sia giusta, importante, irrinunciabile la nostra battaglia per la piena laicità nella e della scuola pubblica e per una seria riqualificazione sia della didattica che, ovviamente, del corpo docente.
Non molti sanno che gli oltre venticinquemila insegnanti di religione che, scelti a insindacabile giudizio delle curie (e quindi dipendenti esclusivamente dalle decisioni dei vescovi), costano allo Stato italiano (vale a dire a tutti i cittadini, al di là delle loro convinzioni) oltre 620 milioni di euro (1.200 miliardi di vecchie lire). La legge 186 del 18 luglio 2003 ha consentito di immettere in ruolo oltre quindicimila professori appartenenti a questa categoria di privilegiati. E non è tutto. Gli insegnanti di religione con quattro anni di supplenza hanno diritto alla ricostruzione di carriera come i docenti con contratto a tempo indeterminato.
Vogliamo, allora, consentire l’ingresso nelle nostre scuole di altri privilegiati assoggettati stavolta agli imam sparsi nelle varie città italiane?
Il nostro stato sta ormai rovinosamente precipitando verso una deriva confessionale che, tra l’altro, mirerà ad escludere prepotentemente concezioni religiose non maggioritarie. Non si può non riconoscere, infatti, che l’atteggiamento accondiscendente della Chiesa nei confronti della complessa realtà islamica è unilaterale e tende a celare e minimizzare altre realtà presenti nel nostro Paese come l’induista, la sikh (molti immigrati provengono dal Punjab), la buddhista (oltre ad un numero sparuto di tibetani c’è, però, una consistente comunità cingalese), la confuciana.
E, allora, che facciamo? Trasformiamo la scuola in un ipermercato delle religioni? Diamo liceità d’insegnamento a quelle con più adepti, che sono anche le più (pre)potenti e violente? E, inoltre, quali e quanti spazi vengono lasciati alla religiosità (l’agnosticismo e l’ateismo ne sono, ad esempio, espressione) di chi intende porsi al di fuori di ogni religione?
E’ chiaro che, se non si attua una radicale inversione di tendenza, si rischia di restare aggrovigliati in un ginepraio senza uscita. L’alternativa c’è ed è di grande ragionevolezza: evitiamo che il multiculturalismo nella scuola anziché essere una preziosa risorsa da coltivare e potenziare possa trasformarsi in una condizione di penosa limitazione di una libera e consapevole conoscenza. E perché ciò accada è necessario che si affermi, anche nella scuola, una visione laicistica, una concezione cioè capace di garantire a tutti uguali opportunità e medesimo rispetto. Noi non siamo antireligiosi ma, anzi, proprio perché attribuiamo alla spiritualità la considerazione e l’attenzione che merita chiediamo che non venga ridotta a misero strumento di asservimento e controllo. Una scuola laica è una scuola dove si impara ad apprezzare e valorizzare la diversità dell’altro senza ingenerare discriminazioni. Ecco perché o l’ora di religione viene trasformata in un’occasione per acquisire vaste opportunità di scelta e, pertanto, la si sottrae all’ingerenza di vescovi e imam oppure è meglio che sia definitivamente abolita perché inutile e dannosa.