RADICALI ROMA

Quando il lavoro è un affare di famiglia

Il miglior ufficio di collocamento in Italia resta la propria famiglia. Intesa in senso allargato: la rete dei parenti, degli amici, dei colleghi, dei conoscenti. Quella rete che con il tam-tam, le informazioni riservate, le dritte giuste e infine la raccomandazione, può farti vincere la gara più combattuta di questi tempi, la gara per il posto di lavoro. Il curriculum, il colloquio, le lingue straniere: tutte carte importanti da giocarsi, ma mai decisive come la telefonata giusta alla persona giusta.

Mentre i veri Uffici di collocamento, che da qualche anno si chiamano “Centri per l’impiego” o “Agenzie per il lavoro”, restano desolatamente vuoti, inutili, inefficaci. Che siano pubblici o privati. I dati del nuovo rapporto annuale dell’Isfol (l’Istituto per la formazione e il lavoro), che verrà presentato a Roma il 21 novembre, parlano chiaro.

La percentuale di chi nell’ultimo anno ha trovato lavoro tramite le proprie private conoscenze, e dunque è stato segnalato, raccomandato e infine cooptato, è altissima: il 40 per cento. Mentre appena il 5 per cento degli impieghi sono stati assegnati attraverso i centri di collocamento (3,3 per cento per quelli pubblici, 1,8 per le agenzie di lavoro interinale). E pensare che il 59 per cento degli aspiranti lavoratori si rivolge ai centri di collocamento, ricevendone però quasi sempre risposte negative.

E non solo: i canali “tradizionali” funzionano in tempi più rapidi. Se trova lavoro entro un mese solo il 24 per cento di chi si rivolge ad un Centro per l’impiego, questo indice sale al 52 per cento tra chi si rivolge ad amici, parenti e conoscenti.

Perché falliscono i canali “ufficiali”? E’ una storia che inizia nel 1997, con la trasformazione degli uffici di collocamento statali in Centri per l’impiego provinciali. In più, la riforma del lavoro dell’allora ministro Treu, e la successiva legge 30, aprono ai privati: nascono le agenzie di lavoro interinale. Che però non decollano: basti pensare che negli ultimi 5 anni il loro numero è rimasto invariato. Nel caso dei centri pubblici, semplicemente non funzionano. “Hanno pochi contatti con le imprese. La domanda di lavoro non incontra quasi mai l’offerta”, dice Marinella Giovine, uno dei curatori del rapporto Isfol: “In più, gli ex uffici di collocamento si occupano della parte più svantaggiata del mercato del lavoro. Persone con bassa qualificazione, che poco interessano alle imprese”.

<!–inserto–>Le imprese, appunto. Sono l’altra faccia di questo mercato del lavoro tutto privato. Ai datori di lavoro dovrebbero interessare capacità, professionalità, competenze. Qualità che un raccomandato, o un “segnalato”, potrebbe non avere. E’ vero, ma solo in parte. Specialmente per le piccole aziende, e sono la maggioranza in Italia, più che la competenza vale l’affidabilità, la fiducia di cui può godere solo un candidato “referenziato”.

Lo spiega il sociologo Domenico De Masi: “Il costo del lavoro è alto, altissimo. Quindi è normale che chi assume voglia avere forti garanzie sulla persona, informazioni dirette sulla sua competenza, ma soprattutto sull’affidabilità, la correttezza. Insomma bisogna potersi fidare”.

Dunque non un mercato del lavoro aperto e trasparente, ma un insieme di reti di conoscenze. Ad esempio categorie professionali: medici che segnalano medici, idem per professori, giornalisti, avvocati, ferrovieri e così via. E chi non ha una rete attorno resta indietro. E’ uno dei motivi per cui tutti gli ultimi studi parlano di mobilità sociale in calo nel nostro paese. L'”ascensore sociale” sta rallentando. La scuola ha fatto molto negli ultimi decenni per creare opportunità uguali per tutti. Ma è nell’accesso al lavoro che le differenze diventano quasi incolmabili. Tra chi ha informazioni e chi no, tra chi si muove sul web e chi no, tra chi ha una rete attorno e chi ne resta ai margini. Un sistema da cui è difficile uscire, secondo De Masi.

Per lui, la frase che meglio rispecchia la situazione va presa dal Vangelo: “A chi più ha, più sarà dato”.