RADICALI ROMA

Quanti abusi in nome del popolo

  Ha tirato fuori una parola ormai insignificante Silvio Berlusconi per dare nome al suo nuovo partito – il partito del popolo -, una parola che non de­finisce più una realtà, una parola che non nomina, che non dice nulla perché il popolo è, per anto­nomasia, il non-luogo semantico della politica.

 

 

 

Nessuno sa definire il popolo, che non è la classe di Marx, non è la moltitudine della nuova misti­ca rivoluzionaria alla Toni Negri, non è la folla solitaria di Ortega, non è la gente di Sergio Endrigo, non è la curva sud degli ultra, non è il pubblico della democrazia americana, non è l’audience della televisione, non è il mercato dei consumatori.

 

 

 

Non è la comunità spontanea, non è la società weberiana, non è l’insieme degli eletti e nemmeno degli elettori, non è un paese in guer­ra, non è il terzo stato, non è la plebe, non è nemmeno il prota­gonista delle canzoni rivoluzio­narie — «avanti popolo alla ri­scossa» o «el pueblo unido jamàs sera vencido» — che sono ritornelli tanto nostalgici quan­to ridicoli, da cantare come si canta «ciuri ciuri».

 

 

 

E difatti la parola popolo resi­ste solo nell’accezione anglosassone, folk in inglese e volk in tedesco, che è il pittoresco, è il folklore, è il mondo che abbia­mo perduto, non il sostantivo dell’indistinto ma l’aggettivo del semplice e dimesso, e anche dell’etnico, nel senso profondo di sangue e terra: c’è il popolare della destra (volkisch) che ri­manda ai furori germanici e c’è il popolare della sinistra che ri­manda ai canti, alle musiche, ai proverbi. E possono essere popolari i peggiori vizi della folla,le orecchie del pettegolezzo, le dicerie e i venticelli delle calunnie. Ma anche i più efficaci rimedi medici sono popolari, come le migliori ricette di cucina. In de­mocrazia, la sovranità è sempre popolare. Ma «in nome del po­polo italiano» si esercitano sia la giustizia sia l’ingiustizia. «Noi, popolo degli Stati Uniti…» è l’incipit della Costituzione ameri­cana. Uccidersi a vicenda nella nomenklatura dei regimi comu­nisti era il modo più sicuro di ri­solvere «le contraddizioni in se­no al popolo».

 

 

 

Come si vede, popolare è me­no insignificante di popolo. Si­curamente non è solo un alibi linguistico, non è solo l’ipocrisia delle finte democrazie comuni­ste (come la Cina popolare, per esempio) che è la stessa ipocrisia delle “banche popolari” ita­liane che si blasonano ancora con l’aggettivo pur non essendo più le risorse dell’Italia contadi­na e cattolica, con l’azionariato diffuso e il piccolo risparmio in­vestito in attività marginali ed agricole. In fondo il merito della parola popolare è quello di to­gliere pesantezza alle cose gre­vemente oscure, spostarle dalla realtà e renderle idealmente aggraziate, armarle di ingenuità, di naturalezza e di immediatezza. Il parlare scurrile, per esem­pio, viene giustificato e, persino apprezzato, perché sarebbe po­polare. E così le scorrettezze e le sgrammaticature vengono fatte passare per virtù di popolo, per realismo, per semplicità.

 

 

 

Tanto più che oggi popolare significa anche di larga diffusione, di forte consenso interclas­sista, di simpatia, e in questo senso Berlusconi è sicuramente un personaggio popolare — di grande popolarità — e può an­che darsi che torni ad essere il più votato dagli elettori italiani, ma i suoi gazebo contro Prodi non sono, come si dice spal­mando retorica, «adunate di po­polo», non sono «le masse che avanzano», non sono «il popolo che si agita», «il popolo che prende coscienza» né, tanto meno, il popolo della politica, il popolo di Milano, il popolo dei fax, il popolo di Internet, il po­polo delle partite Iva, il popolo di Seattle, il popolo dei no global, il popolo della notte, il po­polo come primo (o ultimo) rutto della demagogia.

 

 

 

Può invece darsi che qualche volta gli elettori di Berlusconi siano il folk, che è tradizione e patrimonio, ma mai il people che può essere composto da due persone o da tutta l’umanità. «We’re gonna get the folks who did this» disse Bush il 12 settem­bre, nella prima conferenza stampa dopo l’attacco alle Twin Towers: «prenderemo i folks (e voleva dire la gente? o i popola­ni? o i poveracci?) che hanno fat­to questo». La stampa america­na lo prende ancora in giro per i nemici trasformati in folks, per i terroristi chiamati gente, per gli uomini del Satana islamico di­ventati popolo. Nell’inglese de­gli americani «how are your folks?» significa «come stanno i tuoi?», e my folks sono i miei, la mia famiglia. Ancora «That’s all folks!», questo è tutto gente!, è il tormentone degli eroi dei fu­metti: di Bugs Bunny, Daffy Duck, Titti, Silvestro, Taddeo, Willy il Coyote, Beep Beep…

 

 

 

Eppure se si cerca “folk” in un buon dizionario inglese impre­vedibilmente si trova oltre a popolo, gente e razze, anche band of warriors, banda di guerrieri. Certo, è vecchio inglese, ma in fondo è lo stesso sapore vaghis­simo che c’è ancora nella parola italiana “popolo”, quel signifi­cato lontano, la cui forza stava tutta nel senatus populusque, popolo nel senso militare della Repubblica romana, vera de­mocrazia contadina affidata al­le armi, al verbo populor che vuol dire devastare, saccheggia­re, desolare, e in senso traslato consumare e guastare. Il populus, contrapposto da un lato agli aristocratici e dall’altro alla ple­be, era fatto di piccoli proprietari terrieri che usavano il vomere, vale a dire la lama dell’aratro, sia per tagliare le zolle della propria terra sia, impugnandolo come una spada, per tagliare la gola ai nemici. E populatio significa in­fatti saccheggio, devastazione, preda e bottino.

 

 

 

Dunque davvero è sepolta l’anima della parola popolo nell’u­so e nell’abuso, nell’usura del tempo, anche se rimane diffici­le capire come abbia fatto una parola a diventare insignifican­te, a perdere ogni aderenza con la realtà fosse pure un’aderenza ideale. Machiavelli per esempio usava ancora il popolo nell’ac­cezione romana, voleva rilan­ciare il popolo armato contro l’uso dei mercenari. E nel socia­lismo ottocentesco il popolo era il titolare della bandiera rossa, dunque dell’avvenire, e la casa del popolo (chi ricorda il romanzo?) era una costruzione che mai si portava a compimento.

 

 

 

Nel Risorgimento dicevi po­polo e capivi che bisognava but­tare fuori lo straniero. Era sino­nimo di nazione e di Patria, ma­gari con la connotazione religioso-mazziniana del massone che santificava il popolo: lo sostitui­va ai santi. Il popolo della prima guerra mondiale fu “carne da cannone” secondo il linguaggio dell’antimilitarismo inarco-socialista.

 

 

 

Poi nel fascismo il popolo di­venta oceanico, una figura spet­tacolare del nazionalismo imperialista, un’opera di coreografia della grande proletaria, alla quale «è fatto assoluto divie­to – diceva un editto di Achille Starace — di portare il colletto della camicia nera inamidato». E ancora nel dopoguerra aveva un senso dire popolo, e non solo per la sinistra che si riaggancia al Risorgimento e con “il blocco del popolo” ripropone Garibal­di, ma anche per i cattolici che organizzano il popolo dei cre­denti, con le parrocchie che di­ventano il popolo di Dio…

 

 

 

Nessuno può dire quando esattamente la parola ha smes­so di significare ed è diventata la risorsa difensiva delle teste con­fuse, il marchingegno retorico che permette di giustificare, senza peraltro esibire alcuna reale giustificazione, qualsiasi politica, da quella comica di Grillo a quella di Berlusconi, che, volando da una insignificanza all’altra, potrebbe persi­no ribattezzare il giornale di fa­miglia Quotidiano del popolo, come in Cina.

 

 

 

Perché no? Berlusconi tenta, con il piglio plebeo, il
suo ultimo miracolo e ci prova, tutto solitario, con la parola popolo. Sa che in Italia chiunque riempie di rancori una piazza, o affoga In­ternet di cattivi umori, o fa bot­teghino con gli sberleffi, o viene applaudito nei talk show, o affolla piazza San Giovanni per un concerto… Insomma chiun­que partecipa al lento sfaldarsi del nostro ordine civile lo fa con il popolo dalla propria parte: tutti populisti senza popolo, tutti pronti a lusingare una par­te di folla, a sfruttare le sue pau­re e ad alimentare i suoi pregiu­dizi, a trasformare il mal di pan­cia in macchina di consenso e di attrazione, in nome del popolo che non esiste, abusando di una parola che ormai suona peggio di una parolaccia.