Converrà attendere la motivazione della Consulta, ma un primo esito è chiaro. La Corte
Costituzionale ritiene che la Carta attribuisca in modo esclusivo al capo dello Stato il potere di grazia mentre al ministro di Giustizia competono soltanto un potere istruttorio e la sua
controfirma è un atto dovuto.
Più o meno, una funzione “servente” e burocratica. La Consulta restituisce dunque la grazia alle prerogative assolute del Capo dello Stato. Ribadisce che e un atto suo proprio, gratuito, straordinario, residuo arcaico del potere di un sovrano, e in quanto tale arbitrario. Per queste ragioni, ha sostenuto nel corso di questa querelle buona parte dell’accademia chiamata a raccolta da Marco Pannella, il Capo dello Stato non motiva la sua decisione. Firma la grazia e concede la libertà interrompendo la condanna.
Sono stati necessari quattro anni nell’aprile del 2003 il presidente della Repubblica fece
sapere dagli uffici del Quirinale che, dal gennaio 2002, era in attesa di poter esercitare i suoi poteri di grazia ed era l’aprile del 2004 quando Ciampi si disse pubblicamente pronto a concedere la clemenza a Ovidio Bompressi (“Ho la penna in mano”) e finalmente si giudica e si liquida la mossa abusiva di Roberto Castelli che ritiene di avere “un potere di concerto della
decisione”, “una responsabilità politica” nel provvedimento. Addirittura “un potere di interdizione”. “Se fossi stato ancora ministro, mi sarei dimesso stasera”, fa sapere ora. Purtroppo Castelli avrebbe dovuto il dovere delle dimissioni due anni fa, quando ha costretto Ciampi a un peraltro tardivo conflitto di attribuzione.
C’erano tre interpretazioni a confronto sul banco della Corte. Grazia come potere esclusivamente presidenziale. Grazia come atto “duale”, al quale concorrono la presidenza della Repubblica e il governo. Grazia come espressione di una “leale collaborazione tra due istituzioni”. Questa tesi intermedia, per dir così, è quella che avrebbe gradito nel corso del tempo la prudenza del Capo dello Stato. Anche dinanzi a questa mite e responsabile pretesa, il governo ha opposto il suo rifiuto controproponendo, con il ministro della Giustizia, un “mercato delle grazie con un pacchetto di “graziandi” che il Colle bocciò sentire con sdegno. Senza l’accordo tra governo e Quirinale, ha sostenuto l’Avvocato generale dello Stato per conto della presidenza della Repubblica, “uno dei due poteri deve (però) prevalere e la volontà prevalente, e quindi la decisione finale, non può essere che quella del presidente della Repubblica in quanto titolare del potere costituzionale di grazia”.
La Corte Costituzionale sembra aver accolto questa interpretazione. Meglio tardi che mai, ma sarebbe ipocrita non osservare come, in questo affare, il tempo è stato e ancora è una condizione essenziale.
Luigi Calabresi fu ucciso 34 anni fa. Diciotto anni fa, Ovidio Bompressi (e Adriano Sofri) furono arrestati per la prima volta e, dopo otto processi, ritenuti l’esecutore e il mandante del
l’assassinio. Da 9 anni sono in carcere (o in cura per gravissimi malanni “carcerari”). E proprio
il tempo che ha determinato alcune assolute peculiarità del caso. Innanzitutto la disponibilità della famiglia del commissario ad accettare la decisione del presidente della Repubblica, quale che sia. E ancora, “il totale reinserimento dei condannati nella società civile” che, da anni, ha trasformato la pena in una vendetta, in un cieco corrispettivo del reato commesso. Ora Ciampi ha soltanto diciassette giorni per firmare il provvedimento di demenza. Sono un tempo adeguato per ripristinare la lettera della Costituzione, ipotesi del capo dello Stato e gli obblighi del governo. Diciassette giorni. Forse addirittura un tempo scaduto” per interrompere finalmente il potere punitivo dello Stato perché quella punizione e ogni giorno di più soltanto politicamente vendicativa, inutilmente afflittiva, insostenibile, ormai inutile.