RADICALI ROMA

Quei circoli sul Tevere dove la Capitale fa affari

  Salinger e Baricco, il “Giovane Holden” e “Lanima diHegel e le mucche del Wisconsin”, Kennedy e l’Africa negletta, Bob Dylan e Fabrizio De Andrè, la Juventus “co­me Berlinguer”: tutto si sa ormai dell’affabulante universo veltronico. Tranne l’astuta strategia che ha per­messo al sindaco di Roma di avvol­gere nel suo iperuranio di idee per­fette non solo il ceto medio di sini­stra, ma anche quel pezzo di società moderata, moderatissima, conse-vatrice, conservatricissima, che va sotto il nome di generone romano.

 

 

 

Come veniva chiamato il ceto borghese vatica­no ai tempi delle rissose nobiltà nere e bian­che.

 

 

 

Dalla Borgata Finocchio ai Parioli, dal Tiburtino Terzo a Vigna Clara, dal Trastevere vero a quello degli attici superterrazzati, nessuno riesce a odia­re Walter, la sua macchina da consenso “a — co­munista” ed ecumenica sembra non perdere un colpo. Ed è in riva al Tevere, negli storici “Circoli Canottieri”, reali o exreali, che ha sperimentato la forza dell’abbrivio. Oltre a tutto il resto, Veltroni adora la commedia all’italiana e — magari non lo ricorda — ma nel 1998 non si dev’essere perso un piccolo classico nel suo genere: “Simpatici e anti­patici”, regia di Christian De Sica, sceneggiatura dei fratelli Carlo e Enrico Vanzina, cast composto da Eva Grimaldi, Andrea Roncato, Alessandro Haber.

 

 

 

Superbo cammeo, Gianfranco Funari nei panni di Cesare Previti, per due volte presidente del Cir­colo Canottieri Lazio, dove Stefania Ariosto rac­contò di averlo visto consegnare al magistrato Re­nato Squillante, dopo una partita di calcetto, una busta gialla contenente denaro e richiamarlo a gran voce perché l’aveva lasciata incustodita: «A Renà, te stai a dimenticà questa! ». E’ passato un se­colo dai tempi di Tangentopoli, quando anche il presidente del Circolo Canottieri Roma Franco Pesci, marito di Virna Lisi, costruttore e al tempo stesso vicepresidente dell’Inaii, fu arrestato con l’accusa di tangenti uscenti e entranti, e il conso­cio canottiere Marco Squatriti, detto Squatriarcos, allora marito di Afef Jnifen, finì dentro per lo scan­dalo dell’Italsanità. Anche i Circoli Canottieri più antichi e prestigiosi hanno fatto fatica a recuperare la crisi d’immagine che ingiustamente allora colpì tutti. Oggi la musica è diversa: richiamo alle origini antiche, sport d’eccellenza, agonismo, cul­tura, eticità, buoni sentimenti e soci onorari. Car­lo Azeglio Ciampi, con Sean Connery e Alberto di Monaco, lo è del Canottieri Roma, considerato di destra, dove venerdì 25 maggio sarà alla cena so­ciale seduto al tavolo del presidente, il camiciaio-stilista Gianni Battistoni, e di Gianni Letta, che lì ha

 

praticamente la seconda casa, quando non è ai pranzi superbipartisan di Maria Angiolillo, titola­re del salotto dove corrono apposta da Milano Marco Tronchetti Provera, Bruno Ermolli e Fran­cesco Micheli. Il salotto del Pincio che Roberto D’Agostino, massimo cultore deiri ti del generone, definisce, nonostante la cucina, non patrimonio di Roma, ma “patrimonio dell’umanità”.

 

 

 

Walter Veltroni, più di Ciampi, è ormai socio onorario di tutti i circoli che contano ed è colà che ha fatto le corvée per la presentazione dei suoi libri. Prima al Reale Circolo Canottieri Tevere Re­mo, il più antico di Roma, nato nel 1872 e oggi pre­sieduto dal direttore centrale della Banca Antonveneta Luigi Barone, uomo di fiducia degli azioni­sti olandesi dell’Abn Amro: 1027 soci, tra cui il di­rettore generale della Banca d’Italia Fabrizio Sac­comanni, Antonio Maccanico, Andrea Manzella, l’avvocato dello Stato Andrea Vessichelli, l’avvo­cato Franco Gianni, l’ex presidente della Corte dei Conti Giuseppe Carbone, Renzo Gattegna, presi­dente dell’Unione delle Comunità ebraiche e il manager Mario Murri. Un coté professional-giuridico e di grand commis nel quale prevalgono per numero i commercialisti. Poi presentazione del primo romanzo veltroniano “La scoperta dell’al­ba” al Circolo Canottieri Aniene, omaggiato all’u­nisono da Gianfranco Fini, Luca Cordero di Montezemolo e Gianni Letta. E’ qui, vicino alla con­fluenza tra Tevere e Aniene, chiamato nell’anti­chità Teverone, dove i due fiumi “inciuciano”, co­me si dice a Roma, che Giovanni Malagò, detto affettuosamente “Megalò”, figlio di una nipote dell’antico ministro democristiano Pietro Campilli, ex concessionario-principe della Bmw e ora di Ferrari e Maserati, ha fatto negli ultimi anni del Reale Circolo Canottieri Aniene, nato nel 1892 da una costala del Tevere Remo considerato allora troppo nero e papalino, la più formidabile concentrazione di upper class della capitale. Una sor­ta di stanza di compensazione dei poteri borghesi dei ruoli e della ricchezza, il melting-pot perfetto di commercianti e professionisti, costruttori e alti burocrati, personaggi dello sport, dello spettacolo e imprenditori. Il moderatissimo terreno di gioco del veltronismo, che tende a cooptare e non a escludere proprio nel mondo più moderato.

 

 

 

Si narra che Cesare Romiti, nato a Roma, ma aduso alle sabaude abitudini torinesi,la prima vol­ta che mise piede all’Aniene sia sia sentito apo­strofare: «Ciao Cesare, come va? ». E lui: «Scusi, non ci conosciamo, perché mi dà del tu?». Malagò, che conferma l’episodio, ne fa anche la morale: «Qui tutti si danno del tu per statuto, perché nes­suno si deve sentire nessuno, il peso del rispettivo potere va lasciato fuori, è ammesso il cazzeggio più che il business, non siamo una lobby d’affari, ma una lobby dei rapporti umani».

 

 

 

D’altra parte come avrebbe fatto Romiti a nega­re il tu a consoci che rispondono ai nomi di Fran­cesco Gaetano Caltagirone, l’uomo più liquido d’Italia, suocero di Pier Ferdinando Casini e, tra l’altro, editore del quotidiano romano “II Messag­gero”, Luca Montezemolo, suo ex collaboratore, Luigi Abete, suo ex presidente in Confindustria. E poi i colleghi imprenditori Claudio e Pier Luigi Toti, Andrea Mondello, Alberto Tripi, Massimo Sar­mi, Nerio Alessandri, Elio Catania, Duccio e Paolo Astaldi, Alessandro Benetton, Angelo Rizzoli, Francesco Trapani, Carlo Toto, Pietro Salini, Fran­cesco Caltagirone Bellavista, gli armatori D’Ami­co, i De Simone delle acque minerali. E poi Tornatore, i fratelli Vanzina, Verdone, Ennio Morricone, Sinopoli, Zoff, Petrucci, Pescante, Panatta, Ga­briele Ferzetti. E una spruzzata di politici, da Luca Danese, genero di Andreotti, a Piero Marrazzo, che ha rinnovato le concessioni regionali ai Circoli, da Publio Fiori al portavoce di An Andrea Ron­chi e all’Udc Luigi Compagna, figlio del gentiluo­mo napoletano e repubblicano detto “Chinchino”. Fino a 1.061 soci, numero bloccato, che ha fatto crescere il tempo della lista d’attesa a cinque anni.

 

 

 

Niente donne, ammesse solo se grandi campio­nesse di qualche specialità sportiva, nonostante la fama di antico tombeur des femmes del presidente, 25.000 euro d’iscrizione, contro i 5.000 degli al­tri, più 2.200 euro all’anno.

 

 

 

Per incontrare “nessuno”, come vuole l’appas­sionato Malagò? Solo per il canottaggio, sport per pochi, la partitina a tennis e il Gim Rummy, il gio­co di carte preferito da Andreotti, grande romani­sta e lettore indefesso dei necrologi del “Messag­gero”, vera, triste vetrina per capire le complesse interrelazioni del generone? O anche, per l’ap­punto, per il sistema di relazioni, per consentire a chi non è Romiti o Caltagirone di dare del tu magari a Luigi Scimmia della Covip, piuttosto che al presidente del Tar Lino De Lise, a tanto potere e tanto denaro, con le relative ricadute? S’indigna Malagò : «Non business, non inciuci, non confondiamo l’Aniene con le serate dalla Angiolillo, dove io non sono invitato. Noi facciamo soprattutto sport». Sport e business, sport e potere, non è poi la stessa cosa? Gli altri circoli accusano “Megalò” di
spendere per comprare campioni, non più dilettantismo ma professionismo. Le sue ambizioni sportive sono grandi, si dice che l’obiettivo sia la presidenza del Coni, che l’ha già nominato direttore generale del Comitato promotore delle Olimpiadi di Roma del 2016, con presidente Gianni Letta. In aggiunta al­la carica di presidente del Comitato organizzatore dei campionati di nuoto del 2009 che di affari ne ha già mossi non pochi. A Tor Vergata sta per nascere la cittadella del nuoto, un impianto polivalente da quindicimila posti, stadio, piscine, campi, palestre, alloggi. Un nuovo Foro Italico a ridosso della complanare Roma-Napoli.

 

 

 

Investimento 250 milioni attinti dai fondi per Roma capitale, appalti assegnati fuori gara e fuori delle ordinarie procedure urbanistiche.

 

 

 

Commissario straordinario Angelo Balducci, ex prandiniano, Francesco Gaetano Caltagirone, sempre lui, coordinatore del gruppo di costrutto­ri che allinea Pierluigi Toti, con la Lamaro, Parna­si, Leonardo Caltagirone, Paola Santarelli e il CCC, il Consorzio cooperative di Bologna, una spruzza­ta rosso—emiliana sulla pattuglia romana dell’Aniene. Tutto romano e targato Aniene anche il gruppo che si è aggiudicato la Linea D della me­tropolitana, quello di Paolo Bruno della Ferrocemento e della Condotte, sul quale pendono i ricor­si delle imprese escluse dall’appalto.

 

 

 

Aniene, Tevere Remo, Roma, Lazio, Il Circolo dove si allena Daniela Fini, oggi presieduto da An­tonio Buccioni, l’imprenditore del Luna Park del-l’Eur; poi Parioli Tennis Club, Tiro a Volo, dove si distraggono il commissario dell’Antitrust Antonio Catricalà e il commissario europeo Franco Frattini, Parco di Roma di Barbara Monrea; per il golf, Olgiata e Circolo dell’Acqua Santa, dove, in scarsa aura di santità, giocava il cardinale Paul Marcinkus, custode — si fa per dir e— delle finanze va­ticane. E poi i circoli ancorapiù su della nobiltà ne­ra e bianca, la Caccia e gli Scacchi, a Palazzo Bor­ghese e Palazzo Rondonini, dove ogni palla nera vale tre palle bianche, come verificarono perso­nalmente gli esclusi Paul Getty («E allora me lo compro», sibilò), Valentino Bompiani e Francesco Cossiga. Se non hai quattro quarti di nobiltà lì non entri, salvo poche decine di casi, come quelli di Lu­ca Montezemolo, Lorenzo Pallesi, ex presidente dell’Ina, e Paolo Scaroni, presidente dell’Eni. O quello di don Luigi Ginami, il prete che parlava a Giovanni Paolo II, ma soprattutto al­l’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, che con Cesare Geronzi, Cesare Romiti, Sergio Cragnotti, Bruno Vespa, Sandra Carraro e Paolo Cirino Pomicino partecipò nelle austere sale alla presentazione del suo libro “Segno il mio Re”.

 

 

 

Quando il pm di Potenza Woodcock arrestò Vittorio Emanuele diSa­voia, il Duca di Castel Garagnone Marchese don Giulio Patrizi di Ripacandida e il Marchese Paolo Patrizi Montoro Naro, presidenti delle no­bili istituzioni, chiesero la sua espul­sione da Caccia e Scacchi. A difen­derlo si alzò soltanto il principe Car­lo Giovannelli: «Chi tra noi non è mai andato con una prostituta?». Dieci circoli di serie A, all’ingrosso dieci­mila soci, che con le famiglie fanno almeno quarantamila e con il model­lo italico che Guido Carli definiva “clientela e parentela” fanno un nu­mero imprecisato. Ora un recente rapporto della Luiss sulle classi diri­genti, che naturalmente hanno aRo-ma gli elementi “apicali”, come si dice in gergo, ha individuato tre gruppi elitari: una prima mappa ristretta che comprende circa 2.000 persone, una intermedia di 6.000 e una allar­gata di 17.000. Dire che nei barconi sul Tevere, sui campi da tennis, nelle piscine e nei palazzi dei Circoli si ag­gira buona parte dell’elite nazionale del potere e del denaro forse non è una bestemmia. Si tratta comunque di un bel bacino elettorale moderato e assai influente da catturare, che sa­rebbe una vera mano santa — secondo uno dei punti di vista — per il nascente Partito Democrati­co . Veltro ni — chapeau — lo ha in buona parte intercettato, come possiamo testimoniare dopo qualche giorno trascorso tra biliardi, tavoli verdi e colazioni sociali. Perché, come dice Edmondo Berselli, Walter è diverso, «Walter non viene dalla scuola di partito delle Frattocchie. Walter hala ca­pacità straordinaria di esserci e di sparire, di impegnarsi e di eludere. Fateci caso, non suscita av­versioni violente. Nessuno lo odia».

 

 

 

Anzi, imprevedibilmente in quel tratto che vede l’inciucio tra Tevere e Teverone, più di quelli che ci si aspetterebbe lo amano. Perché da noi, dove la concezione del potere è elitaria e privatistica, non meritocratica ma per cooptazione, come dalla notte dei tempi teorizza il vecchio maestro della sociologia Franco Ferrarotti, più che “la cono­scenza” contano “le conoscenze”.