RADICALI ROMA

RASHOMON, UN FILM SULLE VERITA’ di Pier Paolo Segneri

 

re personaggi raccontano, al riparo da una pioggia torrenziale, le responsabilità di un delitto commesso sotto i loro occhi. Ciascuno narra la vicenda dal proprio punto di vista indicando le vere o presunte dinamiche del crimine, ma scaricandone la colpa sugli altri. E’ il plot del film giapponese Rashomon di Akira Kurosawa, un capolavoro del 1950. Il film in questione è anche, coincidenza o caso, il primo lungometraggio trasmesso dalla Rai agli albori della sua storia televisiva. E’ un film che bisognerebbe rivedere. Soprattutto perché, oggi più che mai, può essere riletto come una metafora dell’attuale telecrazia italiana gestita da un potere fine a se stesso, da un potere per il potere che è la cifra stessa dell’odierna non-democrazia nel nostro Paese. E il delitto commesso è nei confronti della legalità, dello stato di diritto, della Costituzione. Ma qual è il tema di fondo della pellicola? Semplice: la verità. Anzi, le verità, al plurale. Perché i singoli protagonisti sono forse convinti di raccontare la verità dei fatti e, invece, descrivono soltanto una verità, cioè il loro limitato punto di vista aggravato da alcune fragilità personali, da precisi e diversi stati d’animo, da differenti emotività, da egoismi, omissioni, visioni personalistiche e ricordi sbiaditi o addirittura assolutori. A questo tema centrale, che è anche il valore del film, si contrappone un controtema. Il controvalore di Rashomon, infatti, sono le menzogne.

Nella pellicola di Kurosawa, verità e menzogne si sfidano lungo tutto il corso della storia proprio come farebbero due samurai, senza risparmiarsi colpi e contraccolpi. Ma non basta. Come in ogni film che si rispetti, l’approfondimento del tema, cioè del valore, induce a guardare nelle pieghe di quel conflitto e ad indagare anche le altre forme attraverso cui la verità viene stravolta dalle menzogne. E cosa c’è in mezzo tra verità e menzogna? Una presenza che è, allo stesso tempo, un’assenza. Mi riferisco all’omissione o, in altri casi, all’omertà. Chi omette o sta zitto non dice una bugia, però evita accuratamente di affermare la verità. E’ quello che accade quotidianamente nel “quarto potere” della dis/informazione televisiva pubblica e commerciale. Eppure, il regista giapponese non si ferma alla scontata superficialità dello scontro derivante dalla sfida tra verità e menzogne. Va oltre, scende in profondità, svela i luoghi più reconditi del controtema e mostra anche la peggiore delle menzogne, quindi l’aberrazione stessa del controvalore: le menzogne mascherate da verità. E’ il fondo del barile dentro cui cade la pioggia scrosciante. E’ la rappresentazione metaforica del potere mass-mediatico che, in Italia, addormenta le coscienze portandole a considerare come realtà e come verità quello che, invece, è solamente una menzogna mascherata, edulcorata, patinata. Ma un’altra domanda si impone come necessaria: è questo l’inganno massimo che si possa avere? No. Perché c’è un altro step, ancora più basso e meschino, che la pellicola ci racconta e che va preso molto sul serio se vogliamo comprendere bene in che mondo viviamo. C’è qualcosa di peggio della menzogna mascherata da verità. La peggiore delle bugie e delle menzogne è, infatti, l’autoinganno. Quando siamo noi stessi ad ingannarci. A questo siamo arrivati. In tal modo, tutto diventa accettabile, anche lo squallore dell’ipocrisia finisce con l’apparire necessario. E la verità stessa cede il passo al verosimile, che non è certo la verità.

 

Pier Paolo Segneri