RADICALI ROMA

Rodotà: « II diritto di morire appartiene giuridicamente ad ognuno di noi»

  «Diciamo che il Vaticano  può dire quel che vuo­le, sia che la vita è un dono in­violabile, sia che i Pacs sono un capriccio. A questo punto però noi siamo liberi di accogliete queste affermazioni come quelle di qualsiasi altro interlocutore. Siamo in una democra­zia ed ognuno, nessuno esclu­so, è passibile di critica». Stefa­no Rodotà, già garante della privacy e professore di diritto privato, interviene nel dibatti­to sui cosiddetti temi etici – dal­l’eutanasia ai Pacs – che sta ani­mando la politica di questi ulti­mi giorni. E lo fa a modo suo: nel rigore delle regole e nel co­stante richiamo al diritto.
 
Il Papa ha ribadito ieri la sa­cralità della vita ammonendo qualsiasi intervento della scienza: dall’eutanasia, all’a­borto fino alla ricerca sulle staminali embrionali. Come può difendersi la politica da queste ingerenze?
Non si tratta di difendersi. Iniziamo col dire che le posizioni del Vaticano contrastano con molti dati di fatto acquisiti. Provo a spiegarmi: se la vita fosse del tutto intangibile nessun intervento medico che ne mo­difica il corso per migliorarne la qualità e allontanare la morte, sarebbe legittimo. Credo che siano affermazioni ideologiche, legittimi riferimenti ad una serie di valori, ma nulla di più. La politica deve partire dalla premessa che di certo la religione non è solo un feno­meno della sfera privata ma quando essa si manifesta nella sfera pubblica diventa uno dei tanti interlocutori che stanno nel gioco democratico. Ha f atto bene il presidente Bertinotti a richiamare l’autonomia del le­gislatore.
 
Non a caso le parole del Papa sono arrivate nel giorno in cui si decideva se e come “staccare la spina” a WeIby.
H diritto al rifiuto di cure è en­trato nella carta dei diritti del­l’Unione Europea. Ed è già ac­caduto che la Cassazione lo abbia riconosciuto ai testimoni di Geova che oggi possono rifiu­tare la trasfusione. Come si ve­de anche una confessione fa di questo diritto un pilastro. Ci sono persone che hanno rifiutato cure per l’amputazione di un arto; persone che pur di non vi­vere menomate hanno preferi­to morire. Il diritto di morire appartiene giuridicamente ad ognuno di noi. Il parere della Procura è nient’altro che il rico­noscimento di una situazione di diritto già esistente: il diritto all’autodeterminazione.
 
Quale deve essere il ruolo del medico?
In alcuni casi è necessario procedere alla sedazione per non rendere intollerabile la condi­zione della persona che fa questo tipo di richiesta. Dobbiamo garantire una morte priva di sofferenze. Per questo il tribu­nale deve stabilire il diritto del paziente e la possibilità del medico di intervenire con stru­menti che attenuino il dolore.
 
Dunque l’attore principale è il giudice?
Certo il diritto di morire non può essere competenza di altri organismi che non sia la magistratura. Nessun altro può decidere del diritto di morire di una persona. Né il comitato di bioetica né alcuna commissio­ne del ministero della salute. Si tratta di diritti e come vuole la Costituzione è il giudice che deve deliberare.
 
E la politica?
Una volta data questa indica­zione, se il legislatore volesse recepirla in un testo di legge può anche farlo, ma non è indispensabile.
 
Torniamo a PiergiorgioWelby, “staccare la spina” non è eutanasia in senso stretto.
Assolutamente no Se io vengo trattenuto in vita da una cura farmacologica e da un dato momento in poi decido di interromperla, non possiamo certo parlare di eutanasia. Allo stesso modo, staccare la spina è una delle forme del rifiuto di cura. Oggi la tecnologia offre possibilità di sopravvivenza nuove dando così nuove possi­bilità ai pazienti. Qui non c’è eutanasia. L’eutanasia prevede un intervento attivo, non basta sospendere la cura. Se io so­pravvivo, non per effetto di far-maci o di macchine, ma sono ugualmente in una condizione di sofferenza e chiedo che mi venga dato qualcosa che mi faccia morire; solo in quel caso possiamo parlare di eutanasia e di suicido assistito. Usare il termine eutanasia in altri casi è un modo sbagliato che si porta dietro una parola carica di emotività.
 
Passiamo ai Pacs.
L’unione di fatto non è un ca­priccio ma un dato di realtà. L’Istat ha documentato che in Ita­lia il numero ha superato i ma­trimoni. Siamo di fronte ad un fenomeno sociale di massa ri­spetto al quale non si possono chiudere gli occhi.
 
Eppure il Parlamento fatica a trovare un accordo.
Vorrei ricordare che il Parla­mento italiano ha aderito alla carta dei diritti dell’ Ue. Proprio lì c’è un articolo che sottolinea l’uguaglianza tra il matrimonio e le altre forme di famiglia. Dunque l’inaccettabilità del ri­conoscimento delle unioni di fatto è superata.
 
Su quali linee si muoverà la legge promessa?
Intanto io non mi formalizzerei sul bisogno della cerimonia o sulla semplice registrazione nel Comune. Quel che conta davvero è l’insieme degli effetti giuridici. Penso all’assistenza medica, al diritto di subentrare nell’abitazione del convivente, alla possibilità di visita e assi­stenza in sede carceraria a ospedaliera, alla reversibilità della pensione e così via. Anche qui si dimentica che proprio sul terreno fiscale la giurispru­denza ha già fatto passi avanti. Anche per quel che riguarda il diritto delle coppie omoses­suali non dobbiamo dimenti­care che nella carta dei diritti dell’Ue è caduto il riferimento alla diversità di sesso, ci sono norme vincolanti che vietano ogni forma di discriminazione.