RADICALI ROMA

RUINI IN CAMPO CON IL P.C.E.I.?

Un vero e proprio programma politico nell’intervista che il cardinale Ruini rilascia a Famiglia Cristiana per pubblicizzare “Nuovi segni dei tempi”. Il libro sembra contenere il futuro programma politico del P.C.E.I.: analisi storica, situazione sociale del Paese, referendum, globalizzazione, rivoluzione informatica, biotecnologie, scienza, il terrorismo islamico, la situazione internazionale, immigrazione…Tutto legittimo, ma perché il cardinale non interrompe questo continuo stillicidio di pressioni politiche e non scende in campo con il Partito Italiano della Conferenza Episcopale? E’ legittimo che si faccia politica indossando un abito che pretende di rappresentare la religione cattolica -tutti i cattolici, secondo loro-, mentre in realtà ci si trova davanti alla chiara espressione di una lotta politica per il potere interno ed esterno alle gerarchie vaticane? Segretario del P.C.E.I. coraggio!!

Inseriamo l’intervista rilasciata a FAMIGLIA CRISTIANA

Da Famiglia Cristiana on line n. 13 del 27 marzo 2005

PARLA IL CARDINALE RUINI, PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

LE “RADICI” DEL DIALOGO

Nel suo libro Nuovi segni dei tempi, esamina la mutata situazione sociale del Paese. E ribadisce: «I cristiani devono essere aperti a tutti, ma forti della loro identità».

Nuovi segni dei tempi. È chiaro il riferimento al Vaticano II nel titolo che il cardinale Camillo Ruini ha dato a un suo volumetto (87 pagine) che la Mondadori manderà nelle librerie il 29 marzo. Il libro raccoglie quattro recenti discorsi del presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) e tratta delle sorti della fede nell’età dei mutamenti, come annuncia il sottotitolo. L’imminente pubblicazione del libro è lo spunto di questa conversazione con il cardinale.

Eminenza, prima di parlare del libro, un paio di domande sul Papa. Il 20 marzo, Domenica delle Palme, lei ha presieduto le celebrazioni in Piazza San Pietro al posto del Papa. Anche negli altri riti della Settimana Santa e della Domenica di Pasqua il Pontefice sarà sostituito da cardinali. Quale messaggio può arrivare alla Chiesa e al mondo da questa assenza del Papa, dalla sua crescente invalidità?

«Un grande messaggio è arrivato dai due recenti ricoveri ospedalieri del Santo Padre: il messaggio dell’accoglienza della sofferenza e della capacità di viverla in unione a Cristo come fondamentale via di salvezza. Nel messaggio ai sacerdoti per il Giovedì Santo di quest’anno, il Papa fa riferimento non solo alla sua personale sofferenza, ma al fatto che il sacerdote, celebrando l’Eucaristia nella persona di Cristo, deve saper offrire sé stesso. Credo che l’offerta più preziosa sia proprio la serena accettazione delle prove che il Signore ci manda».

Le fragili condizioni fisiche del Pontefice pongono problemi al governo centrale della Chiesa cattolica?

«No, perché le condizioni fisiche possono essere fragili, ma quelle mentali sono assolutamente buone, e quindi il Santo Padre continua a compiere gli atti di governo, ad assumere le grandi decisioni, come ha sempre fatto. Penso che per lui sia una sofferenza non piccola non potersi esprimere e non poter partecipare come faceva prima a tutte le vicende, anche minute, della vita della Chiesa, nelle quali tanto si è speso. Ma qui torniamo all’altro aspetto, cioè al mistero della sofferenza, che è anche mistero di salvezza».

Parliamo adesso del suo libro, per il quale ha scelto il titolo Nuovi segni dei tempi. Nuovi rispetto a quali segni del passato?

«Nuovi in quanto successivi a quelli indicati dal Vaticano II. Nel libro mi riferisco alla portata nella vita sociale e culturale di eventi come la contestazione del 1968, il disfacimento del blocco sovietico a partire dal 1989, la crescente globalizzazione, la rivoluzione informatica, la rivoluzione delle biotecnologie, il terrorismo islamico, l’emergere di altri protagonisti nella scena mondiale, come la Cina e l’India. Già questo semplice elenco dà l’idea di quanto sia mutata la situazione complessiva dal Concilio Vaticano II a oggi».

Nel libro lei parla spesso di «nuova questione antropologica», rappresentata dalla tendenza a trasformare l’uomo incidendo sulla sua realtà biologica e psichica. Che fare affinché sia l’etica a guidare scienza e tecnologia?

«La nuova questione antropologica riguarda certamente la tendenza da lei ricordata, ma va tenuta presente anche tutta la trasformazione dei costumi avvenuta negli ultimi decenni. Posizioni che prima apparivano da tutti condivise, oggi sono viste come specifiche della Chiesa cattolica».

In quali campi è più evidente la trasformazione dei costumi?

«Certamente nella famiglia e in tutta la sfera affettiva. In questi campi, gli assi portanti dell’etica cristiana un tempo erano pacificamente accettati, anche come espressione di un senso comune. Oggi non è più così. Di fronte a queste trasformazioni, prima del “fare” viene il “pensare”: l’etica non sta da sola, è frutto di convinzioni riguardanti il senso della nostra esistenza e del nostro destino. La novità del nostro tempo è che la domanda su chi è l’uomo, con le questioni etiche che ne conseguono, è diventata tema di etica pubblica, con riflessi nella legislazione, nelle strutture sociali, nelle scelte economiche. Su questi terreni, e in particolare sulle biotecnologie, destinate ad avere rapidi sviluppi, siamo chiamati a confrontarci pubblicamente. Ma, al di là delle posizioni diverse, le risposte alle questioni emergenti non possono prescindere dalla domanda su chi è l’uomo».

Il terreno più delicato del confronto tra le diverse visioni dell’uomo è quello delle biotecnologie?

«Sì. E bisogna tener fermo che lo sviluppo scientifico e tecnologico non può livellare l’uomo a particella della natura. L’uomo appartiene certo alla natura, ma nello stesso tempo emerge rispetto alla natura. Credo che salvaguardare questa visione sia una grande sfida anche per il pensiero cristiano. La nostra riflessione sull’uomo va condotta nella nuova situazione, non basta appellarsi alla grande tradizione antropologica cristiana. Questa va declinata nel contesto dei progressi scientifici attuali».

Tra i “nuovi segni dei tempi” lei indica anche il risveglio identitario dei popoli islamici che ha stimolato un analogo risveglio nelle nazioni cristiane, come l’Italia. È un fenomeno che prepara il dialogo o lo scontro fra civiltà?

«Sta a noi far sì che prepari il dialogo e non lo scontro. Non sono fenomeni che obbediscono a una logica deterministica, per cui si va fatalmente allo scontro o al dialogo. Qui entra la responsabilità personale e collettiva sia dei popoli di matrice culturale cristiana, sia dei popoli islamici, sia degli altri protagonisti. Per questo è molto importante il messaggio ripetutamente lanciato dal Papa sulle grandi religioni come fattori d’incontro e non di guerra tra gli uomini. Per quanto riguarda il risveglio identitario delle nazioni cristiane, esso va promosso con alcuni criteri di fondo: deve svilupparsi in senso autenticamente cristiano, nel senso dell’amore e non, viceversa, nel senso di una comunità chiusa e conflittuale; in secondo luogo, il risveglio sarà autentico se si cerca davvero Cristo, altrimenti è l’illusione di un risveglio, il richiamo a una cultura passata che non incide sull’oggi».

La rivendicazione dell’identità cristiana dell’Italia è brandita da alcuni ambienti culturali e politici anche per contrastare l’immigrazione, soprattutto quella proveniente da Paesi islamici. Qual è la sua posizione in materia?

«Anche in questo campo l’atteggiamento fondamentale è quello positivo: l’immigrato è prima di tutto persona, e quindi ne vanno rispettati i diritti e create le condizioni per la sua integrazione nella società. A chi viene tra noi è giusto chiedere il rispetto delle regole della nostra vita comune. Invece non è giusto l’atteggiamento di chi, per rispetto degli immigrati, vorrebbe abolire i segni pubblici della nostra tradizione religiosa. Il maggiore pluralismo religioso della nostra società non implica che debbano essere soppresse le espressioni cristiane. Con questa logica si potrebbe giungere all’abolizione della domenica. Sono piuttosto posizioni laicistiche di settori della società italiana che non richieste avanzate dagli immigrati».

Parliamo del prossimo referendum sulla procreazione assistita. Era necessario che lei indicasse agli elettori un preciso comportamento, cioè l’astensione per far mancare il quorum? Non bastava richiamare i valori in gioco e poi lasciare la decisione alla coscienza formata e informata dei cattolici?

«La principale preoccupazione dei vescovi e anche di tanti laici, e quindi non soltanto mia, era che la scelta di differenti posizioni portasse al loro reciproco annullamento. L’indicazione della non partecipazione al voto ci è sembrata essenziale per raggiungere seriamente un risultato».

Anche con il rischio di trattare i cattolici da minorenni?

«Anzitutto, la nostra indicazione è rivolta a tutti gli elettori, non solo ai cattolici. E poi, non solo noi vescovi, ma anche tanti altri – partiti, forze sociali e culturali, giornali – hanno dato indicazioni di voto: non per questo si è detto che trattano gli elettori o i lettori da minorenni. Inoltre, la teoria che la Chiesa possa pronunciarsi solo sui princìpi e non sulle scelte concrete non ha alcun fondamento teologico. Che la Chiesa possa dare indicazioni concrete su comportamenti pubblici, quando sono in gioco valori molto importanti, non è un fatto nuovo: lo ha sempre fatto».

Per questo motivo non c’è bisogno di indicazioni precise per le prossime elezioni regionali…

«Esatto. Nel referendum si tratta di quesìti antropologici ed etici precisi, rispetto ai quali il cittadino diventa legislatore. Nelle regionali la scelta è tra persone, tra gruppi, dei quali l’elettore deve saper valutare programmi e comportamenti, ma non ci si esprime direttamente sui valori».

Giusto due anni fa incominciava la guerra in Irak. Una guerra che non sembra ancora conclusa e che ha forse rafforzato il terrorismo, anziché indebolirlo come si sperava. La domanda è d’obbligo: non aveva ragione Giovanni Paolo II, che a quella guerra si oppose con grande vigore?

«Il Papa aveva pienamente ragione, aveva visto molto lontano. La via normale, giusta, per affrontare queste problematiche non è quella dell’intervento armato, se non come extrema ratio. Ora bisogna sperare, come il Papa ha detto nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace, che da vicende negative si possano ricavare risultati positivi. Portare il Medio Oriente a una situazione più democratica e pacifica e, soprattutto, risolvere nodi come quelli della Palestina e del Libano, sarebbero sviluppi da salutare con favore. Speriamo che anche in Irak avanzi positivamente il processo incominciato con le elezioni dello scorso gennaio».

Renzo Giacomelli