RADICALI ROMA

Saddam non va ucciso.

  Lo dico nel modo più semplice: spero che Saddam Hussein non venga giustiziato. L’ex dittatore iracheno si è macchiato di colpe orrende, crimini gravissimi contro l’umanità. E’ necessario che sia punito. E perà ritengo che una condanna a morte sarebbe ingiusta e sbagliata.

 

 

 

 Ingiusta e sbagliata, I due termini si tengono, si caricano ciascuno del significato dell’altro. Mi pare infatti che la questione non sia soltanto quella della «moralità» della pena di morte, della sua giustificabilità alla luce di una qualsiasi ragion di stato o di un qualsiasi, preteso, interesse superiore di una società nazionale o della comunità internazionale. Su questo piano di nuovo c’è davvero poco da dire: pur tra mille contraddizioni e con vistose, e dolorosissime, eccezioni (tra cui la democrazia più grande e il Paese più popolato del mondo) il concetto della assoluta non liceità dell’«assassinio di Stato» si è fatto strada, e non solo dalle nostre, privilegiate, regioni del pianeta. Poiché a Roma abbiamo la tradizione di segnalare con una illuminazione speciale del Colosseo ogni passo in avanti sulla via dell’abolizione della giustizia (giustizia?) capitale, siamo in grado forse di accorgerci meglio di altri di quanto la pena di morte sia effettivamente in regressione in tutti i continenti. In tempi crudeli come questi, in cui terrorismo e guerra, fame e malattie rendono routine la contabilità della morte di migliaia di persone ogni giorno, è un segno, un conforto.

 

 

 

 C’è più da dire, invece, sull’altro elemento dell’endiadi ingiusto-sbagliato. Non ho nulla da aggiungere agli argomenti, indiscutibili, con cui i promotori dell’appello «Nessuno tocchi Saddam» dimostrano come la pena di morte sia, al di là di tutte le altre considerazioni, «inutile», nel senso che non ha alcuna funzione di deterrenza. Per quanto, riguarda la sicurezza interna degli Stati è un fatto dimostrato da tutte le statistiche sulla criminalità e non si vede perché dovrebbe essere diversa la situazione in un caso, come quello di Saddam Hussein, che ha pure forti riflessi di giustizia internazionale e un inevitabile impatto sull’opinione pubblica  dei Paesi islamici, anche la meno ben disposta verso Saddam e il baathismo. E’ più che probabile, anzi, che l’uccisione del dittatore ne farebbe un martire e rafforzerebbe l’idea che il suo processo non sia stato tanto un atto di giustizia per le migliaia di morti provocati da lui e dal suo regime, per le sofferenze imposte al suo stesso popolo, ma una vendetta perpetrata dai «vincitori» sui «vinti». Questo determinerebbe un paradosso del quale forse non si coglie la pericolosità.

 

 

 

 Io, come moltissimi (compresa ormai la maggioranza dell’opinione pubblica americana), ritengo che la guerra in Iraq sia stata un grave errore dell’Amministrazione Bush. Però debbo assumere che, almeno negli scopi dichiarati se non nelle intenzioni vere, quella guerra è stata fatta nel nome di qualcosa: non solo la necessità di contrastare la pericolosità della politica aggressiva di Saddam e le sue (presunte) connivenze con il terrorismo, ma anche la volontà di liberare il popolo iracheno, la maggioranza sciita, i curdi, gli stessi sunniti estranei alla «nomenklatura» e ai ceti privilegiati, da una sanguinosa e umiliante dittatura. C’è molto da discutere sulla praticabilità, morale e politica, della «esportazione della democrazia» e però credo che esista e sia moralmente e politicamente fondato un principio di «ingerenza umanitaria» che comincia a trovare solidi ancoraggi anche nel diritto internazionale e che è sancito dall’esistenza di un Tribunale penale internazionale. Che colpo riceverebbe quel principio se, con l’uccisione «legale» di Saddam, si sancisse che proprio chi agisce per affermare i diritti della libertà e della vita è pronto a rinunciarci, e oltretutto in nome d’una pretesa giustizia dei popoli? Qualcuno obietterà che il paradosso non riguarda solo gli iracheni e il destino di Saddam, visto che il peso micidiale della contraddizione sulla pena di morte se lo porta dietro proprio il Paese che ha promosso la guerra per «liberare» l’Iraq. E’ vero, e noi europei (e noi italiani figli, come ci piace dire, di Beccaria) dovremmo forse sentirla un po’ più nostra, quella contraddizione, ma è un discorso che ci potrebbe portare lontano.

 

 

 

 Torniamo a noi, invece, scendendo dal cielo dei grandi principi alla terra delle ragioni e dei sentimenti più semplici. Quando ho ricevuto la richiesta di aderire all’appello mi sono tornate in mente due cose. Una è una frase di Leonardo Sciascia: «Se tutto questo, il mondo, la vita, noi stessi, altro non è, come è stato detto, che il sogno di qualcuno, questo dettaglio infinitesimo del suo sogno, questo caso di cui stiamo discutendo, l’agonia del condannato, la mia, la sua, può anche servire ad avvertirlo che sta sognando male, che si volti su un altro fianco, che cerchi di aver sogni migliori. E che almeno faccia sogni senza la pena di morte». L’altra è il ricordo delle pagine della «Peste» in cui Albert Camus parla dell’ingiustizia della morte. Non l’ingiustizia, ovvia, della morte degli innocenti, ma l’ingiustizia che di fronte alla morte rende la vita cattiva e colpevole, perché la vita non può mai fare i conti con l’irreparabilità della morte e nessuna morte può essere «giusta». Camus fu, con Sartre e molti altri intellettuali del suo tempo, un accanito e saggio avversario della pena capitale. Sostenne, con argomenti laici, la grande verità di principio delle chiese cristiane, contrarie alla pena di morte non solo perché la loro dottrina contempla il perdono, ma perché considerano la privazione di un dono di Dio come la vita, quale che sia la ragione che la determina, una empietà irreparabile. Esistono pochi problemi di coscienza in cui le ragioni della fede e quelle del pensiero laico coincidano con tanta coerenza: «Se credessi in Dio – diceva Elias Canetti – mai potrei perdonargli la morte degli uomini».

 

 

 

 Ecco allora che anche il caso di Saddam Hussein, l’assassino della sua stessa gente, il dittatore senza pietà che non esitò a far usare le armi chimiche contro i villaggi di curdi, che scatenò una guerra che sarebbe costata un milione di morti, ci costringe a guardarci dentro, perché è un problema anche nostro, di ognuno di noi, cercare dov’è il confine della giustizia umana. Ci dice, mi pare, o dovrebbe dirci, che esistono limiti e tabù e che esiste anche un obbligo alla moderazione. Non uccidere Saddam Hussein, oltre che la risposta a un principio, che noi crediamo universale ma altri non considerano tale, sarebbe un atto di buon senso «politico» sul quale tutti, a ben vedere, potrebbero convergere. Una scelta di guardare avanti piuttosto che al passato. Il mondo, e specialmente quella parte di mondo, ha un disperato bisogno che si abbassino i toni, che si esercitino pazienza, saggezza e disponibilità al dialogo invece di esibire muscoli e incrollabili certezze dei propri diritti. Va garantita, anche con la forza, la sicurezza contro il terrorismo, ma se la forza si fa ragione di se stessa il terrorismo non verrà mai sconfitto perchè non si starà cercando giustizia, ma vendetta.

 

 

 

 Uno scrittore israeliano fece, qualche tempo fa, una proposta tristissima nella sua paradossale sensatezza. Da una parte e dall’altra – disse – smettiamo di celebrare i funerali: scordiamo i morti, almeno pubblicamente, perché la morte chiama la morte e la spirale, così, non si potrà chiudere mai. Saddam Hussein sia punito per i suoi crimini, ma non gli si dia la soddisfazione di creare, con la sua morte, al
tri morti.