Non c’era bisogno della sfera di cristallo per prevedere che il tema delle intercettazioni illecite avrebbe assunto proporzioni deflagranti, fino a trasformare il nostro Paese in un “Grande orecchio” in cui i ruoli degli intercettatori e degli intercettati si sarebbero addirittura confusi in un inestricabile intreccio.
Né occorrevano particolari doti di preveggenza per comprendere che solo quando il tiro si fosse alzato ed avesse colpito categorie di soggetti “eccellenti” il problema sarebbe stato portato con toni preoccupati all’attenzione dell’opinione pubblica, poiché a quel punto, alla domanda “per chi suona la campana?” si sarebbe potuto rispondere “la campana suona anche per te”.
Entrambe le profezie sembrano essersi avverate, culminando con i mandati di arresto di ieri nell’ambito delle indagini su società di investigazioni cui, stando all’accusa, anche agenti in servizio presso la Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Carabinieri avrebbero fornito informazioni illecite su precedenti penali, posizione tributaria, conti bancari, dati anagrafici di ignari cittadini “monitorati”.
E’ evidente che i fenomeni che negli ultimi mesi sono stati portati all’attenzione dell’opinione pubblica sono notevolmente variegati: si va dall’acquisizione di notizie di sicuro interesse investigativo, al gossip su notizie raccolte nell’ambito di indagini, ma prive di alcuna rilevanza penale; si passa per il tiro a segno contro il malcapitato di turno intercettato senza neppure essere indagato; si arriva infine alla captazione illecita ed allo sfruttamento economico di dati riservati sui precedenti giudiziari e sulla situazione patrimoniale di un ignaro cittadino. Pur tra queste diverse fenomenologie, vi è però un filo conduttore comune, rappresentato da una costante disattenzione al bene della privacy, alle forme che sono preposte alla sua tutela, agli irreparabili danni che la violazione di esse comporta.
Se poi ci si chiede come sia stato possibile che in un ordinamento così attento alle garanzie vi sia stato un così profondo deterioramento degli ambiti di tutela di questo bene, le risposte principali sono almeno due. In primo luogo, l’erroneo convincimento che il fine giustifichi i mezzi e quindi l’atteggiamento di fastidio con cui sono visti coloro che invocano un sistema di doverose garanzie, volte a mitigare gli eccessi dettati da una esasperata ansia investigativa. In secondo luogo, l’estesa complicità morale di quanti, pur di acquisire e di leggere un ghiotto scoop giudiziario, non mostrano alcun interesse a distinguere tra notizie di reato e notizie occasionalmente raccolte nel corso di una indagine, ma non collegate ad alcun fatto penalmente rilevante.
Tutto ciò ha reso evidente la fragilità del bene della privacy, esposto a molteplici livelli di aggressione, fino ad arrivare a forme di capillare intrusione che sembravano appartenere solo alla fervida fantasia letteraria di Orwell.
L’auspicio è che, una volta toccato il fondo, possa riaffermarsi una condivisa sensibilità al tema di una effettiva tutela della riservatezza, perché strettamente connesso alla salvaguardia della libertà personale di ciascuno di noi.