RADICALI ROMA

Se la signora Gina vuol lavorare ancora

Caro direttore, il tema delle pensioni nasconde molte realtà diverse ponendo un problema di equità sociale, dal lavoratore del pubblico impiego all’operaio dell’industria pesante, dal pensionato che non riesce a raggiungere il minimo pensionistico alla donna casalinga. In questo contesto complesso e variegato vorrei che mantenessimo un occhio di riguardo anche per la signora Gina. Il nome è di fantasia, mala situazione che descrivo è molto reale.

 

La signora Gina ha sempre lavorato, ha figli ormai grandi, sta per compiere sessant’anni. In teoria può optare per mantenere il posto di lavoro.

 

Ma le pressioni perché “torni a casa” e si occupi della famiglia sono piuttosto forti. Non è contenta di andare in pensione, la signora Gina, per almeno tre ragioni.

 

1) Innanzitutto perché vuole continuare a far parte del mondo del lavoro. Non le dispiacerebbe fare qualcosa di diverso, avere più tempo libero attraverso forme di part-time, magari riqualificarsi (la vita è ancora lunga, le statistiche le dicono che può sperare di godere almeno di altri 15 anni di buona salute), ma sa bene che in Italia quando si è fuori si è fuori; per chi va in pensione le possibilità di rientrare in un’attività produttiva sono quasi nulle.

 

2) In secondo luogo, la signora sa farsi molto bene i conti. Cinque anni di contribuzione in meno si tradurranno in una pensione minore e in una maggiore erosione negli anni. Aumenterà il rischio di impoverimento.

 

3) Infine, Gina vuole molto bene ai suoi nipoti e anche alla vecchia mamma inferma ma non ha alcuna voglia di occuparsene a tempo pieno. Preferirebbe continuare a svolgere la sua attività, aiutare figli e figlie nel tempo libero, contribuire alle spese di assistenza senza diventare una badante.

 

L’apologo della signora Gina serve a spiegare la mia insistenza sul prolungamento dell’età di pensionamento delle donne. Credo che, lungi dall’essere un privilegio, il

 

pensionamento anticipato per molte donne sia una trappola. Del resto, tutta l’Europa si muove verso l’equiparazione dell’età di pensionamento e il differenziale che vige in Italia è oggetto di una procedura d’infrazione comunitaria per quanto riguarda l’impiego pubblico. Perché è vero che questo non è obbligatorio, ma il solo fatto che sia una facoltà per le donne è vista come un incentivo ad andarsene, ad uscire dal mondo del lavoro, cosa che peraltro può far comodo anche al datore di lavoro.

 

Non penso che il pensionamento anticipato possa servire a indennizzare le donne per la doppia fatica svolta nella loro vita, lavorando e occupandosi della famiglia. Molto meglio indirizzare il risparmio derivante da un progressivo innalzamento dell’età pensionistica verso investimenti nelle cosiddette “pratiche di conciliazione”, cioè in tutte quelle iniziative (a cominciare dagli asili nido) che serviranno ad aumentare il tasso di occupazione femminile. Una maggiore disponibilità di strutture di supporto alla famiglia migliorerà la qualità della vita anche delle donne di una certa età come la signora Gina, non più costrette a restare a casa appena possibile a fare le bambinaie per consentire alle figlie di lavorare.

 

Perché la mia proposta di equiparazione dell’età è stata accolta con tanta acrimonia? Credo che sia ancora diffusa, come segnalato anche da economisti e sociologi, una tendenza a pensare che il ruolo della donna debba essere all’interno della famiglia, che il lavoro femminile sia uno sgradevole accidente da contenere il più possibile. Senza rendersi conto che al giorno d’oggi senza un secondo stipendio nel nucleo ben difficilmente si fanno i figli e che in ogni caso l’apporto dell’altra metà della popolazione alla produzione di ricchezza è fondamentale per lo sviluppo futuro, come ha ricordato di recente l’Economist, citando in particolare i ritardi di Italia e Giappone.

 

Il problema della terza età in Italia non è fatto solo di aridi calcoli sul pensionamento, ma è un problema culturale e sociale. Non me ne vogliano i colleghi Ferrero e Damiano, ma chissenimporta se la metodologia Ocse di calcolo delle pensioni è diversa da quella di Eurostat. Sappiamo comunque che il mondo verso il quale ci avviamo è un mondo di persone anziane, che non devono essere emarginate dalla società. Mantenere ad esse un ruolo produttivo è un obiettivo di civiltà e non solo di equilibrio dei conti pubblici.