La pubblicazione del libro Il liberismo è di sinistra (il Saggiatore), scritto assieme a Francesco Giavazzi, ha generato un acceso dibattito. Siamo grati a tutti coloro che finora vi hanno partecipato, compresi quanti ci hanno criticato, anche con vigore.
Poiché crediamo che la discussione debba concentrarsi sui contenuti, non sulle parole, vanno chiariti alcuni punti per evitare inutili confusioni. Prima di tutto il titolo. Il titolo rispecchia la tesi del libro che è la seguente: da sempre (almeno a parole) la sinistra si proclama a favore dei più deboli, contro i privilegi, le caste, a favore di una maggiore uguaglianza sociale, a favore dei giovani e delle generazioni future, come recita una frase di Vittorio Foa che riportiamo nel libro.
L’unico modo per raggiungere questi obiettivi oggi in Italia è adottare politiche “liberiste”, un termine su cui tornerò più avanti. Adottare cioè quelle politiche di cui da tempo si parla, dalla cosiddetta “Agenda Giavazzi” alla riforma delle pensioni, da una riduzione della spesa pubblica al licenziamento dei fannulloni, dalle liberalizzazioni dei mercati e delle professioni a un’università veramente meritocratica. Un “pacchetto” che abbiamo tutti ben presente e che nel libro ricordiamo puntualmente.
Politiche che tradizionalmente si associavano alla destra andrebbero adottate da una sinistra che abbia veramente a cuore le istanze che abbiamo ricordato e che dovrebbero essere sue. Non c’è un rapporto inversamente proporzionale tra efficienza (che tradizionalmente sta a cuore alla destra, quella vera) e uguaglianza (che storicamente sta a cuore alla sinistra, quella vera); adottare politiche liberiste farebbe aumentare entrambe.
Si badi: quello che oggi vale in Italia non valeva un secolo o mezzo secolo fa. Per esempio, la tesi che sosteniamo secondo cui ridurre la spesa pubblica per pensioni e dipendenti pubblici è “di sinistra” non poteva valere quando queste spese erano una frazione di quelle odierne e i servizi pubblici scarsi. Allora sì che poteva esserci una relazione direttamente proporzionale tra peso fiscale (e spesa pubblica) ed equità intorno a cui destra-sinistra potevano discutere con divisioni di parte più tradizionali.
Il titolo del libro non significa che solo la sinistra in Italia possa attuare riforme liberiste. Lo diciamo chiaramente nella prima pagina dell’introduzione! Scriviamo che forze liberiste sono presenti sia nella coalizione di destra sia in quella di sinistra, ma purtroppo in entrambe rappresentano una minoranza.
A noi interessa poco che riforme liberiste vengano fatte da una sinistra seriamente riformista, meno timida, più creativa e che finalmente sia in grado di liberarsi dell’ala massimalista di cui oggi è succube. Oppure che vengano fatte dalla destra, che si liberi di Silvio Berlusconi con il suo populismo e con i suoi conflitti d’interesse, e insieme a lui della destra sociale e delle connessioni con varie lobby professionali. O ancora che sia un rimescolamento politico a unire le forze liberiste ora divise in coalizioni diverse.
Alcune reazioni da destra sul «Giornale» accusano il libro di essere una manovra elettorale per la sinistra, un’accusa dietrologica un po’ buffa e paranoica per chi, come Francesco Giavazzi e io, ha criticato con durezza questo Governo in numerosi editoriali e nel libro stesso. Ma qualcuno a destra – chi è intervenuto su «Libero» per esempio – ha capito benissimo la nostra intenzione. La destra non può continuare a fare la “vittima” per mancanza di riforme liberiste, quando ben poco ha fatto in cinque anni di governo con una maggioranza relativamente solida. La sinistra non può più mascherarsi dietro la difesa dei “deboli” per rimandare riforme liberiste.
Vengo al secondo punto, la confusione sui termini “liberismo” o “liberismo economico” o “liberalismo”, su cui Panebianco sul «Corriere della Sera» e altri si sono soffermati. Non avevamo la minima intenzione di addentrarci in una discussione politologica sulle differenze dei termini in questione. Credo sia chiaro dalla natura del libro che per liberismo intendiamo quel pacchetto di politiche “pro mercato” cui abbiamo accennato e che abbiamo avuto modo di illustrare ancor più dettagliatamente nel nostro libro Goodbye Europa (Rizzoli 2006). Lungi da noi la pretesa di partecipare a un dibattito sul significato filosofico delle parole liberismo o liberalismo.
L’ultima questione terminologica: “vecchio” e “giovane”. È vero che qualche “vecchio” lo è solo anagraficamente. Elsa Fornero su questo giornale (si veda l’edizione del 9 settembre) ci accusa di voler “rottamare” tutti i cinquanta-sessantenni. In realtà, saremmo masochisti considerata la nostra stessa età. Il suggerimento d’imporre limiti d’età per accedere a determinate cariche è un modo per richiamare l’attenzione sul fatto che si deve dare più peso al merito e meno all’età sia nel settore pubblico sia in quello privato. Molti giovani si sentono (giustamente) bloccati da una società che premia troppo l’anzianità.
Insomma, la cosa che ci preme sottolineare è questa: è vero che le riforme a favore del mercato aumentano sia l’efficienza che l’equità oppure no? Come riportiamo sul retro di copertina, secondo Fabio Mussi no. Secondo noi sì. Questo è il punto su cui ha senso discutere.
Ps. In un post scriptum a un editoriale, Eugenio Scalfari ci accusa di non sapere che il mercato può produrre disuguaglianza. A pagina 24 del libro scriviamo: «Mercato e concorrenza vanno salvaguardati e protetti. La povertà e l’eccessiva disuguaglianza vanno mitigate con un sistema di trasferimenti e di protezione sociale, con una tassazione progressiva sì, ma che non disincentivi a lavorare e investire». Avendo letto il libro solo “per dovere”, evidentemente Eugenio Scalfari non è arrivato a pagina 24.