RADICALI ROMA

Spesa locale, un futuro su cui riflettere

  Dinanzi alla rivolta dei sindaci, gran parte dei quali di centro-sinistra, è probabile che il Governo non potesse che fare parziale marcia indietro sulle misure inizialmente previste nella legge finanziaria per tagliare le spese degli enti locali. Ne dovrebbero trarre vantaggio anche i contribuenti ai quali, forse, sarà evitata un’ulteriore spremitura.

 

 

 

 Sarebbe ora il caso, però, di non archiviare il tema della spesa locale, che altrimenti si ripresenterà, in termini sempre più difficili, a ogni Finanziaria.

 

 

 

 La prima riflessione dovrebbe riguardare il federalismo fiscale, che significa, semplicemente, attribuire alla politica locale la responsabilità di conciliare mezzi e fini, spese e servizi, applicando l’aurea massima che “nessun pasto è gratis”.

 

 

 

 In effetti, gli enti locali, negli ultimi anni, non hanno dimostrato particolare virtuosità finanziaria (a parte poche e lodevoli eccezioni). È una fonte non sospetta, ossia uno studio originariamente nato per il programma dell’Unione e recentemente pubblicato dal Mulino (I conti a rischio – La vulnerabilità della finanza pubblica italiana, di Riccardo Faini, Silvia Giannini, Daniel Gros, Giuseppe Pisauro e Fiorella Kostoris Padoa Schioppa) a sottolineare, per esempio che, mentre «i dipendenti delle amministrazioni centrali sono diminuiti, dal 1990 ad oggi, dell’1,5%, il numero dei dipendenti delle amministrazioni locali è cresciuto di quasi il 3%».

 

 

 

 Affrontare la questione, com’è stato fatto negli anni passati, con l’accetta, pensando che basti bloccare turn-over e assunzioni è naturalmente un’illusione. Le amministrazioni locali, e anche quella centrale, hanno bisogno di tagliare, certo, ma, in certi casi, anche di spendere più e meglio e di assumere personale aggiornato e qualificato. Ma esse devono allora ridefinire cosa vogliano fare e come. Devono ripensare a quali servizi fornire e al modo in cui garantirli; magari abbandonando pratiche e organizzazioni ottocentesche per dare spazio al mercato e alla concorrenza, liberando così risorse. Anche nel settore più delicato, costoso e impegnativo, quello sociale, ci sarebbe ampio spazio per ricercare margini di efficienza attraverso privatizzazioni e concorrenza (vera, non riservata ai soliti noti e lottizzati).

 

 

 

 C’è poi il capitolo, già ampiamente discusso su queste colonne, delle ex-municipalizzate che hanno spesso cambiato la veste giuridica ma non le cattive abitudini: col risultato, sottolineava una recente indagine Mediobanca-Civicum, che i servizi pubblici municipali hanno visto lievitare le tariffe negli ultimi anni a fronte di una difesa occhiuta della proprietà pubblica (il 73% di esse è interamente posseduto dagli enti locali) e del monopolio; e garantiscono copertura dei costi in proporzione straordinariamente inferiore rispetto a quanto accade in altri Paesi (per il trasporto pubblico locale, in Italia il grado di copertura è del 30,7%, in Gran Bretagna dell’84,2 e in Germania del 60,5).

 

 

 

 Quanto ai costi della politica, di nuovo, pensare che basti infierire sulle misere buste paga degli assessori dei piccoli centri è pura demagogia. La via maestra, se mai, è affrontare la ripartizione delle competenze e ripensare serenamente su natura e funzioni delle Province. Decidendo magari di abolirle gradualmente, per esempio fra due legislature: si eviterebbero così traumi immediati a molte carriere politiche e sarebbe più facile placare le resistenze. Ma, a data certa, potremmo contare su un’amministrazione pubblica più agile ed efficiente, meno ridondante e costosa.