RADICALI ROMA

Stipendi dei consiglieri, il taglio diventa finto

Ricordate la riduzione del 10% degli stipendi dei politici, dai parlamentari ai consiglieri circoscrizionali? Doveva essere un taglio, è diventato un taglietto. Meglio: un tagliettino. Doveva dimostrare che quanti governano, in questi anni di magra, danno il buon esempio. E’ diventato la prova, l’ennesima, che le sforbiciate non passano mai, nei palazzi del potere. Doveva far risparmiare un piccolo tesoro da distribuire «a fini di solidarietà».

E invece offre nuovi spunti a chi dice, sfidando l’accusa di qualunquismo, che su certe cose (eccezioni a parte) sono tutti uguali. Una delle furbate messe a punto per aggirare il taglio del 10% degli stipendi è finita in Consiglio dei ministri non più tardi di quattro settimane fa, il 6 ottobre. Quando il governo, reduce dal varo di una manovra pesantissima motivata con la necessità di far quadrare i conti, è stato chiamato a dir la sua su una legge della Toscana (la 36/2006) che interpretava in modo «elastico» il taglio deciso da Giulio Tremonti nella sua ultima Finanziaria. E poiché non ha trovato motivi per opporsi e impugnare tutto, le nuove norme sono state pubblicate sulla Gazzetta ufficiale del 28 ottobre. Diventando operative, sconti compresi.

Diceva il comma 54 dell’articolo 1 della Finanziaria tremontiana: «Per esigenze di coordinamento della finanza pubblica, sono rideterminati in riduzione nella misura del 10 per cento rispetto all’ammontare risultante alla data del 30 settembre 2005 i seguenti emolumenti: a) le indennità di funzione spettanti ai sindaci, ai presidenti delle province e delle regioni, ai presidenti delle comunità montane, ai presidenti dei consigli circoscrizionali, comunali, provinciali e regionali, ai componenti degli organi esecutivi e degli uffici di presidenza dei consigli dei citati enti; b) le indennità e i gettoni di presenza spettanti ai consiglieri circoscrizionali, comunali, provinciali, regionali e delle comunità montane». E per non lasciare spazio ai dubbi dei maghi del cavillo («per indennità di funzione intendesi forsanco…») il punto «c» precisava che andavano tagliate «le utilità comunque denominate spettanti per la partecipazione ad organi collegiali». Insomma: tutto. Tanto più che gli stipendi dei politici, dai deputati ai consiglieri regionali, sono composti sempre da più voci (rimborsi viaggi, indennità di missione, assunzione di assistenti…) tradizionalmente usate per aggirare questo o quel problema. A partire, per dirla tutta, dalle imposte.

Tutto chiaro? Chiarissimo. Eppure, avute tra le mani le norme, il consigliere regionale toscano Jacopo Maria Ferri ha levato il ditino: eh no, così non va. E ha cominciato a cercare, uno per uno, i punti in cui la legge poteva essere aggiustata. Chi sia il giovanotto è presto detto: un idealista. Figlio di Enrico Ferri, il leggendario ministro socialdemocratico dei Lavori pubblici ricordato per la barbetta risorgimentale e il tentativo di obbligare gli italiani a non superare i 110 all’ora, il giovanotto succhia politica da quando gli diedero il primo biberon. E ha continuato a succhiare. Eletto due volte consigliere regionale per Forza Italia, il giorno in cui il babbo (due volte eurodeputato berlusconiano) decise di lasciare gli azzurri alla vigilia delle elezioni del 9 aprile per passare all’Udeur, si trovò davanti a un dilemma: scegliere il papà o il Cavaliere? Scelse il papà, con allegato Mastella. Restando imbullonato al seggio regionale e insieme a quello di consigliere del «Consorzio per lo sviluppo della ricerca geofisica mineraria applicata e ambientale».

Chi presiede il Consorzio? Papà Enrico. Chi sono i soci? Uno è il «Centro lunigianese di studi giuridici», guidato da sempre da papà Enrico. L’altro il Comune di Pontremoli, del quale (dopo una complicata vicenda di ineleggibilità, ricorsi, sospensive del Tar che non staremo a riassumere) fa oggi le funzioni di sindaco, dopo essere stato podestà quattro volte dal giurassico al proterozoico, sempre lui: papà Enrico. Se sia stato il babbo a suggerirgli gli aggiustamenti non si sa. Certo è che Jacopo, con l’appoggio di un collega di An, l’aretino Maurizio Bianconi, presenta a giugno una leggina. La quale interpreta a modo suo il comma 54. E dice che no, le percentuali del rimborso spese mensile vanno calcolate «senza tenere conto della riduzione del 10%». Che questa riduzione «non si applica alla diaria mensile». Che i gettoni di presenza devono continuare ad essere distribuiti come prima in base alla consuetudine che «si considera presente il Consigliere che facendo parte di più organi collegiali, abbia partecipato nella giornata alla riunione di uno degli organi». Che la «determinazione dell’ammontare dell’assegno vitalizio spettante ai consiglieri cessati dal mandato» va calcolata anche quella «senza tenere conto della riduzione del 10% dell’indennità mensile» e così pure la «determinazione dell’ammontare dell’indennità di fine mandato».

A farla corta: la leggina regionale, su cui Francesco Storace sta per presentare una scandalizzata interrogazione parlamentare, riduce il taglio al minimo del minimo. E chi la vota, in aula? I Ds si chiamano fuori. E votano contro: «Ci pareva assurdo, in un momento come questo, esporci all’accusa di farci gli affari nostri», spiega il presidente della giunta regionale Claudio Martini. Tutti gli altri, a favore. Compresi quelli che si rifiutano perfino di andare insieme in piazza contro il terrorismo. Da An a Rifondazione, da Forza Italia ai comunisti italiani, dall’Udc alla Margherita ai Verdi. Tutti uniti nella Grosse Koalition del Rimborson. Un caso isolato? Ma niente affatto.

La scappatoia alla sforbiciata l’hanno data in tanti. Scegliendo, qua e là, soluzioni diverse. Il Veneto, roccaforte della destra, ha optato per l’escamotage della Toscana, roccaforte della sinistra: solo taglietto alla voce indennità con l’esclusione delle altre. Fine. La Sicilia ha battuto altre strade. Ce le dicono due buste paga (aprile 2005 e agosto 2006) di Salvatore Centola, un deputato udc dell’Ars cui va riconosciuto avere il coraggio di rendere pubblici i suoi stipendi. Da cui si vede che l’indennità è stata un po’ tagliata (non del 10%: del 7,3%) ma in compenso è stata più che raddoppiata (da 443 a 1.107 euro al mese) la «indennità DPA 79/75» e portata a 345 euro la «franchigia telefonica» e altro ancora. Ma soprattutto è stata radicalmente tagliata, questa sì, la base imponibile. Così che la ritenuta Irpef lorda è scesa da 4.288 a 3.931 euro. Morale: un deputato siciliano prende più o meno quanto prima.

Del resto è così anche a Roma. I primi a venir tagliati non dovevano essere gli stipendi di deputati e senatori? Bene, i bilanci del Senato (dato ufficiale) dicono che non è andata così. Lo stanziamento del capitolo 1.2.1. (indennità parlamentare) parla infatti di un taglio del 5,51% per l’effetto combinato, parole testuali, «della decurtazione del 10% delle competenze in questione e del successivo incremento delle stesse, ipotizzato nell’ordine del 4,5%, che verrà applicato quando sarà disponibile il tasso di incremento delle retribuzioni della magistratura».

Gian Antonio Stella