RADICALI ROMA

Strappi continui alla laicità dello stato

  Un concetto quasi del tutto assente nel dibattito che ri­guarda la richiesta di Piergiorgio Welby di porre fine alla propria vita di intollerabili soffe­renze è quello della laicità dello stato. Eppure se la richiesta dì Piergiorgio Welby non viene accolta è perché la nostre legge in materia di eutanasia, lungi dall’essere laica, è basata su pre­giudiziali di carattere religioso. Così come lo sono le attuali insulse elucu­brazioni sulla famiglia e le coppie di fatto, persino in materia di successio­ne. Nel caso di Welby basta chiedersi a chi appartenga la vita di ciascuno di noi, se a noi stessi o allo stato e che co­sa significhi la libertà di coscienza sancita dalla nostra Costituzione per capire che la nostra legge conculca la libertà di coscienza di chi è perfettamente in grado di intendere e di vole­re.

 

 

 

Purtroppo non credo che le posi­zioni accomodanti dei nostri politici verso le gerarchie vaticane siano inte­ramente dettate da opportunismo. Temo siano il frutto di una cultura in­trisa di confessionalismo che non discerne il primo dei diritti umani che è la libertà di decidere della propria vi­ta da un’inconsapevole subalternità ideologica ai precetti della dottrina morale cattolica. In questo senso le di­chiarazioni rilasciate dal Presidente della repubblica in queste ultime settimane sono emblematiche, ma non sorprendenti. Non sorprendenti dato che Giorgio Napolitano ha fatto parte della Convenzione dell’Unione euro­pea che ha redatto la bozza del tratta­to costituzionale europeo la quale ta­ce sul principio della laicità delle isti­tuzioni e riconosce alle chiese un ruo­lo istituzionale. E Benedetto XVI giu­stamente se ne rallegrò. Non sorpren­denti poiché Napolitano si rivolge al Papa chiamandolo «Santità», appella­tivo nient’affatto protocollare e tanto meno laico che denota particolare ri­verenza e soggezione.

 

 

 

Lo stato e la chiesa dovrebbero ri­cercare «soluzioni ponderate e condi­vise sulla libertà di ricerca, sui suoi co­dici, sulle regole e i più complessi te­mi bioetici», ha dichiarato Napolita­no in occasione della «Giornata per la ricerca sul cancro», riconoscendo per­tanto alla chiesa cattolica – entità non eletta quindi non rappresentativa – la dignità di interlocutrice su temi di pertinenza parlamentare. Tale affer­mazione disturba gli equilibri demo­cratici dato che fa pesare il piatto della bilancia a favore dei cittadini catto­lici.

 

 

 

«Chiesa e stato sono chiamati a ser­vire gli stessi valori di moralità e di equità» ha dichiarato il nostro Presi­dente, forse non pensando che lo sta­to non difende valori ma principi, quelli sanciti dalla Costituzione della repubblica, dalla Dichiarazione uni­versale dei diritti dell’uomo, peraltro non sottoscritta dalla Santa sede. In sintesi: per lo stato la pedofilia è rea­to, per la chiesa (e per Ratzinger in persona) non lo è: è solo peccato. Per lo stato la contraccezione è lecita, mentre la chiesa condanna l’uso del profilattico anche nel caso di popola­zioni decimate dall’aids come quelle del Ruanda: per noi tale condanna è assimilabile all’istigazione a delinquere. L’Italia ha firmato le convenzioni del Consiglio d’Europa che vietano la discriminazione delle donne, mentre la Santa sede non le ha firmate e di­scrimina le donne anche al suo inter­no. Per lo stato, le coppie di fatto non vanno discriminate, per la chiesa sì e lo stesso dicasi per gli omosessuali e per i non credenti i quali, per la chiè­sa, sono persone «senza fondamen­to». Lo stato vuole eliminare, almeno in teoria, privilegi e discriminazioni., La chiesa invece esige i primi e prati­ca le seconde.

 

 

 

Grave anche l’affermazione di Gior­gio Napolitano secondo cui la chiesa e lo stato hanno una «comune missio­ne educativa». La missione dello sta­to è di unire tutti i cittadini, di educar­li allo spirito critico e alla libertà di co­scienza. La chiesa cattolica divide, in­timorisce, assoggetta.

 

 

 

Mi domando se davanti a tanti e ta­li strappi alla laicità dello stato non sia il caso di parlare di emergenza de­mocratica.