Sembrava, ancora poco tempo fa, che una legge sul testamento biologico fosse, non dirò a portata di mano, ma vicina, una innovazione di cui si riconosceva la necessità e che poteva essere realizzata senza difficoltà eccessive. Si presentava, anzi, come un terreno sul quale rendere concreto e fruttuoso il dialogo troppe volte invocato tra laici e cattolici. E invece sono venute crescendo le difficoltà, contorte manovre politiche sostituiscono al Senato una discussione limpida e divengono sempre più imperiose le richieste di abbandonare del tutto questa via.
Questa accelerazione è venuta dopo il Family Day. Forti del successo in piazza San Giovanni, i promotori di quella manifestazione hanno proclamato la morte dei disegni di legge sulle unioni di fatto, i Dico, ed hanno indicato nell’abbandono delle iniziative legislative sul testamento biologico il prossimo obiettivo, pronti ad una nuova mobilitazione popolare. Che dire dopo il Gay Pride? Contrapporre piazza a piazza, come pure è legittimo, o provare di nuovo, pazientemente, a mostrare come una buona legge sul testamento biologico rappresenti uno sviluppo coerente di una riflessione sul morire condivisa dalle persone più diverse e che siamo di fronte all’obbligo di risolvere un problema dei cittadini, non della politica?
Torniamo alla pulizia concettuale, cerchiamo di liberare la discussione dalle confusioni interessate che continuano ad inquinarla. Il testamento biologico si presenta come un svolgimento del diritto al rifiuto di cure, e affronta e risolve questioni diverse da quelle che riguardano l’accanimento terapeutico e, soprattutto, l’eutanasia attiva. E’ del tutto ideologico, ed empiricamente infondato, l’argomento che rifiuta il testamento biologico considerandolo come l’anticipazione di un inevitabile passaggio al riconoscimento pieno dell’eutanasia. L’osservazione della realtà ci dice il contrario. Molti paesi hanno da tempo riconosciuto il testamento biologico e questo non ha prodotto alcuno “scivolamento” verso leggi sulla eutanasia attiva. E’ sbagliato, inoltre, sovrapporre le questioni del testamento biologico e quelle dell’accanimento terapeutico. L’inammissibilità di quest’ultimo è ormai da tempo riconosciuta, trova una formulazione chiara nell’articolo 14 del codice di deontologia medica, dove si afferma che «il medico deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per l’assistito e/o un miglioramento della qualità della vita». Nello stesso codice, poi, si sottolineano i doveri del medico per quanto riguarda il consenso del paziente, il suo diritto di rifiutare le cure, la necessità di «tenere conto delle eventuali manifestazioni di volontà precedentemente espresse» (art. 34).
La linea indicata dall’insieme di queste e di altre norme, e dalle molte sentenze che le hanno applicate, è ormai chiara. Il consenso informato è il fondamento dell’autodeterminazione e lo strumento che rende legittimo il rifiuto di cure. Le direttive anticipate si inseriscono coerentemente in questo quadro e si presentano come lo strumento che consente di far operare l’autodeterminazione in maniera prospettica, permettendo alla persona di indicare le proprie determinazioni per situazioni eventuali di incapacità nella fase terminale della vita.
Invece di seguire questa strada limpida, si sta dando la falsa impressione di un legislatore prigioniero delle difficoltà del costruire un istituto giuridico del tutto nuovo e dell’insuperabile barriera del rapporto tra laici e cattolici. Le cose, a ben guardare, stanno nel modo opposto. Partendo dall’esame dei materiali giuridici già disponibili, si può ragionevolmente concludere, e qualche decisione giudiziaria lo ha fatto, che in presenza di una chiara volontà della persona già oggi, dunque anche prima e indipendentemente dall’approvazione di una legge, i trattamenti medici dovrebbero essere interrotti, consentendo una morte dignitosa. Peraltro, anche la figura del “fiduciario”, al quale affidare il rispetto della volontà del paziente una volta che questo sia divenuto incapace, è già nel codice civile, dove si prevede che la persona interessata possa designare un amministratore di sostegno «in previsione della propria eventuale futura incapacità» (art. 408), che è formula già comprensiva di una parte almeno dei contenuti del testamento biologico. Inoltre, nell’ultimo numero di Aggiornamenti sociali, la rivista diretta da padre Bartolomeo Sorge, si trova una interessante “rilettura” del caso Welby che non soltanto porta a concludere per la legittimità del rifiuto del trattamento in questa specifica vicenda, ma più ingenerale da forte rilievo alla «competenza della coscienza individuale nelle decisioni relative ai casi-limite». E’ una indicazione da cogliere, per uscire dalle strettoie che ci angustiano, e che mostra come sia possibile, quando si abbia spirito aperto, riuscire a trovare punti di consenso anche muovendo da posizioni almeno nelle apparenze lontane. E sono pagine da consigliare a quel magistrato romano che, con una lettura della Costituzione adir poco sommaria, ha respinto la richiesta di archiviare la richiesta di procedere contro l’anestesista che intervenne accogliendo la richiesta di Piergiorgio Welby.
La logica costituzionale è ben diversa. Infatti, nell’articolo 32, dopo aver considerato la salute come diritto fondamentale dell’individuo, si prevede che i trattamenti obbligatori possano essere previsti soltanto dalla legge, aggiungendo però che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E’, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato.
Siamo di fronte ad una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, ad una autolimitazione del potere. Viene ribadita l’antica promessa del re ai suoi cavalieri: “non metteremo la mano su di te”. Il corpo intoccabile diviene presidio di una persona umana alla quale “in nessun caso” si può mancare di rispetto: il sovrano democratico, l’Assemblea costituente, rinnova la sua promessa di intoccabilità a tutti i cittadini.
Questo è il quadro che il Parlamento deve tenere presente. Discutendo di testamento biologico (ma sarebbe più corretto parlare di “direttive anticipate”), non si sta attribuendo ai cittadini un diritto nuovo, che questi non hanno. E allora bisogna limitarsi a disciplinare con il massimo di sobrietà e di rispetto le condizioni del suo esercizio. In questo momento, al contrario, si sta cercando di sfruttare una situazione politica e parlamentare sempre più ambigua per arrivare ad una legge che esproprierebbe le persone di prerogative che già loro appartengono. La proclamata volontà di rispettare la persona rischia cosi di convenirsi in una sua strumentalizzazione. Per imporre un punto di vista, le persone sarebbero chiuse nella gabbia della sofferenza, condannate alla perdita della loro stessa umanità. Anche i legislatori, quali che siano le loro convinzioni, dovrebbero forse ricordare che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato».
NO
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