RADICALI ROMA

«Troppi distinguo su Israele»

  Il ministro dell’Interno Giuliano Amato segue i dispacci dalle Questure sull’agitazione dei tassisti, va, in una tranquilla domenica di luglio, a trovare un vecchio amico al mare, bella residenza con piscina per ragionare di sinistra e mondo. In automobile l’ex direttore dell’Ufficio Studi della Cgil, docente universitario, presidente del Consiglio, padre della sfortunata Costituzione Europea e ora responsabile degli Interni nel gabinetto di Romano Prodi, legge, telefona, sfoglia carte, incurante del chiassoso traffico del litorale romano. La sua attenzione è lontana dal «tutti al mare!», appuntata a San Pietroburgo, la città russa fosco scenario per il «Delitto e Castigo» di Fiodor Dostoevskij e, oggi, per il G8 organizzato da Vladimir Putin.

 

 

 

 «Guardo ai cosiddetti Grandi della Terra» commenta Amato con preoccupazione «penso che solo poco tempo fa attraevano proteste e scontri e li vedo rischiare l’impotenza. Non basta il potere per essere efficaci». Amato non pensa solo all’impasse sul commercio che ha diviso il presidente americano George W. Bush e l’ospite Putin e nemmeno all’Iran, con il G8 bloccato davanti all’ipotesi di una Teheran degli ayatollah con arsenale nucleare. Prima di lasciare il suo studio ha visto le immagini di Haifa sotto i missili Hezbollah, i raid dell’aviazione israeliana. «Quando sento che perfino il presidente Bush interpreta la formula del “Malgrado Israele sia stata provocata, pur tuttavia…” e qui la solita liturgia di inviti alla cautela, ho l’impressione che a San Pietroburgo non si sia capito cosa succede al confine tra Israele e Libano. Israele è davanti, per l’ennesima volta nella storia, all’incubo che la sconvolge, sapersi accerchiata da nemici che negano il suo diritto all’esistenza».

 

 

 

 Il «Partito del Tuttavia», la falange di chi si libera in fretta dei diritti di Israele per poi considerare con generosità gli argomenti dei rivali, ha fatto capolino anche nelle riunioni del governo italiano ed è stata la ministro Emma Bonino, con schiettezza, ad opporsi, coadiuvata dal vicepremier Francesco Rutelli e, si dice, dallo stesso Amato, con il premier Romano Prodi e il ministro degli Esteri Massimo D’Alema a contenere i «tuttavisti» militanti. «Io non amo affatto riferire quel che si discute nel Consiglio dei Ministri» si schermisce Amato, «sono stato premier e so quanti guai vengono dalle chiacchiere. Ma poiché il dibattito è stato già riferito e non si tratta di pettegolezzi, ma di cruciali questioni di strategia geopolitica, posso confermare che sì, sono preoccupato per l’enfasi sulla “risposta proporzionale” all’attacco subito da Israele, come se si trattasse di ragioneria e non della sopravvivenza di uno stato. La situazione è tragica, la prudenza sempre raccomandabile ma a patto di non cancellare la minaccia in corso. E’ un attacco a Israele, globale, concentrico, premeditato e organizzato. Non vedete, mi viene da chiedere a chi fa troppi distinguo, che amici fraterni, intellettuali di grido, scrittori amati ovunque e assai critici con il loro governo, Amos Oz, Avraham Yehoshua, David Grossmann, stavolta si stringono insieme, capiscono che la trappola è mortale? E cosa facciamo? Offriamo solo equidistante freddezza? Qui è in gioco la sopravvivenza della nazione, il suo diritto alla vita. L’opinione pubblica in Israele lo sa ed è unita».

 

 

 

 Come tutti gli uomini abituati a valutare l’intelligenza e la ragione come virtù cardinali nell’analisi della realtà, Amato disprezza l’approccio irrazionalistico, «Sbaglia chi vede in Hamas, in Hezbollah, pazzi estremisti, fanatici incapaci di intendere e volere. Al contrario è un piano coordinato, davanti a cui noi, il governo e la sinistra, non possiamo non vedere. Tutto è stato calcolato per scatenare la reazione di Israele e isolare le voci moderate in Palestina e in Libano. E né la Siria, né l’Iran stanno a guardare. Siamo sull’orlo di una guerra globale in Medio Oriente, altro che “tuttavia”».

 

 

 

 Un amico israeliano del ministro Amato lo ha chiamato tardi, sabato notte, per raccontargli il sentimento diffuso tra la gente dopo il rapimento dei soldati e la pioggia di missili «Mi ha detto, e sto parlando di un progressista, un amico della pace eh?, “Giuliano ti ricordi come discutemmo della famosa passeggiata di Ariel Sharon alla spianata del Tempio, che accese la furia dei palestinesi e innescò la seconda intifada, sradicando le speranze di pace a Camp David? Bene l’attacco di Hezbollah e Hamas, ritmato perfino sui tempi della Coppa del Mondo di calcio, aspettando che l’attenzione del mondo si staccasse dal pallone, è pensata non da pazzi isolati, ma da chi vuole rimettere il dito sul grilletto e puntare l’arma contro Israele».

 

 

 

 La domenica di Amato comincia nel pessimismo «L’immagine del G8 è quella di un gruppo di leader ridotti all’impotenza, fanno fatica a dimostrarsi all’altezza del dramma in corso. Qui non basta più l’ordinaria ammnistrazione, non si tratta di missilotti fatti in casa, ci sono armi iraniane e c’è a Teheran un potere conservatore: cosa aspettiamo?». Poi la chiacchierata con il vecchio amico di tante battaglie (e non poche sconfitte…) per generare una sinistra raziocinante, magari un tuffo in piscina, lo rimandano davanti alle novità che Internet e le tv scandiscono da San Pietroburgo. «Allora vediamo» commenterà nel pomeriggio il ministro «mi pare che almeno la dichiarazione comune del G8 dimostra lavoro e uno sforzo serio. Speriamo, possiamo sperare. Non che il ‘Partito del Tuttavia’ sia stato sconfitto, anzi, ma almeno c’è un tentativo. E molto apprezzabile mi pare la mediazione di Romano Prodi. Ha parlato con il libanese Siniora e con il premier israeliano Olmert. Per chi conosce i simboli della diplomazia internazionale è importante vedere che Romano s’è fatto portavoce di Israele, e delle sue condizioni e bisogni, davanti alla comunità internazionale. Prodi s’è costruito negli anni di Bruxelles un buon rapporto con gli israeliani e lo farà pesare».

 

 

 

 La guerra in Libano e Israele, l’ombra di Damasco e Teheran, mettono la sinistra davanti a responsabilità gravi. La pattuglia militante che si oppone alla missione in Afghanistan, reclama però i caschi blu in Libano, segno che la forza è «buona» o «cattiva» secondo le ideologie in campo. Ma Amato non teme passi indietro: «Non direi che stiamo arretrando. E’ vero che per difendere i progressi a Kabul si devono talvolta usare i militari, ma questo non vuol dire essere in guerra. La polizia può usare la forza contro un reato ma mica la accusiamo di aggressione a mano armata. E’ serio invitare tutti alla prudenza e alla moderazione, ma è ipocrita accusare ogni volta di eccesso chi viene aggredito. L’Onu poi…» e qui un amico del ministro gli suggerisce il nuovo libro dello storico Paul Kennedy sulle Nazioni Unite, “The parliament of man”, «Lo leggerò subito» annota Amato, mezzo secolo di politica incapace di cancellare l’abito dello studioso «ma resto persuaso dell’ipotesi del filosofo Michael Walzer: l’Onu rispecchia l’anarchia degli stati. Per procedere nel mondo globale ha bisogno di forti associazioni di paesi, su base regionale, in Africa, in Asia, in America latina. Saranno questi gruppi di nazioni lo snodo tra Palazzo di Vetro e le varie crisi. Perché l’America da sola non basta a garantire la pace, non c’è una pax americana come la pax romana imperiale. Il modello ideale è proprio l’Unione Europea e il suo successo nel prevenire e rimuovere tante crisi nel vecchio continente. Eppure guarda quanto difficile è anche per noi europei intervenire con efficacia nella guerra in corso». C’è da studiare e da agire, il «par
tito del tuttavia» rischia di essere più testardo dei tassinari. E l’estate, dalla spiaggia romana a quelle del Libano, resta carica di problemi per il ministro, che carico di carte già torna nella capitale