RADICALI ROMA

Un nuovo round nella riforma dei servizi pubblici locali

Negli ultimi anni, si è andato allargando un nuovo “capitalismo comunale“. In primo luogo, lo si deve alla elevata redditività delle aziende operanti nei settori della distribuzione dell’energia e del gas e delle autostrade, garantita da un assetto industriale assai poco concorrenziale e da una regolazione generosa.

 

Galline dalle uova d’oro

 

Gli enti locali puntano sul mantenimento dell’attuale assetto della regolazione per assicurarsi stabili e consistenti flussi di cassa negli anni avvenire, preferendoli agli introiti, rilevanti ma una tantum, della privatizzazione. Il mantenimento del controllo assicura di poter continuare a sussidiare, con i proventi delle “galline dalle uova d’oro”, le perdite dei servizi sociali o gravati da “obblighi di servizio pubblico”, come i trasporti locali o la raccolta dei rifiuti. Inoltre, la possibilità dell’affidamento in house (1), consente di evitare di ricorrere al public procurement tramite gare competitive e trasparenti e di distorcere la concorrenza in mercati pienamente liberalizzati con la presenza di soggetti che, in quanto controllati dalla mano pubblica locale, non possono fallire e non rischiano il take over.

 

Fame di risorse, aggiramento delle regole contabili e difesa del potere

 

Appare poi probabile che le ristrettezze finanziarie determinate dalle esigenze di finanza pubblica, abbiano finito per rafforzare la preferenza degli enti locali per il controllo delle imprese profittevoli. La fame di risorse li ha spinti a costituire proprie società per entrare in altri settori redditizi, dalla gestione della sosta e dei parcheggi alla erogazione di servizi di supporto al funzionamento degli enti locali stessi, fino a servizi informatici o a servizi di bus turistico. Si assiste così alla crescita di un “nuovo” settore pubblico locale, finalizzato al finanziamento dell’ente locale stesso.
Una conseguenza diretta delle regole contabili collegate ai vari Patti di stabilità è la tentazione, avvertibile a livello locale come a livello nazionale, di aggirarli: si cerca di collocare al di fuori del perimetro della Pa aziende che devono indebitarsi, così da poter far apparire gli indebitamenti come di pertinenza delle aziende stesse e non della Pa, a cui, tra l’altro, è vietato finanziare con mutui le spese correnti. Il divieto, che risponde a un principio di sana e prudente gestione, ha finito per sviluppare la fantasia delle amministrazioni locali nel mascherare come spese di investimento quelle che, a tutti gli effetti, sono spese correnti.
A ciò si aggiunge la spontanea propensione degli amministratori e dei politici locali a mantenere e, se possibile, allargare il controllo pubblico sulle aziende locali allo scopo di consolidare il proprio potere, distribuendo posti nei consigli di amministrazione e nel management, nonché allo scopo di influire direttamente sulle scelte concrete delle aziende stesse e di mantenere un rapporto diretto con una fetta non grande ma “attiva” di elettorato potenziale: i loro dipendenti.

 

Il disegno di riforma Lanzillotta: luci e ombre

 

La parte più positiva del disegno di legge 772 consiste nella limitazione a casi eccezionali, da documentare appropriatamente, del ricorso agli affidamenti in house (art. 2, commi b, c, d). Non viene però chiarito se rimane in vigore o se invece verrà cancellato quel “poco, maledetto ma subito” delle gare per il 20 per cento dei servizi di trasporto pubblico locale già affidati in house previsto dalla Finanziaria 2006. Inoltre, l’articolo 2, comma l fa salvi gli attuali affidamenti in house fino al 2011: il più rilevante è quello del trasporto pubblico locale a Roma che, guarda caso, scade proprio nel 2011. Dopo la grottesca vicenda dei taxi, questa norma cucita addosso alle esigenze dell’amministrazione comunale della capitale, ma non dei suoi cittadini/contribuenti, suscita qualche perplessità.
Ma le resistenze degli amministratori locali sono tornate a farsi sentire con forza nella conferenza Stato-Regioni-Città e, quindi in Parlamento: cercano, in tutti i modi, di allargare la finestra degli affidamenti in house. Stando a notizie di stampa, il ministro Lanzillotta sembra propensa a concedere qualcosa per ottenere il consenso di sindaci e governatori. Le si può suggerire di non cedere sul principio generale e invece di fissare una soglia dimensionale dei comuni (per esempio, 30mila abitanti) che possono ricorrere all’in house senza troppe giustificazioni?
Nel Ddl 772 il riferimento alla concorrenza è assai sfumato, anzi si dice esplicitamente che le “finalità pubbliche (…) sono perseguite, ove possibile, attraverso misure di regolazione”, anche se subito si aggiunge “nel rispetto dei principi di concorrenza e di sussidiarietà orizzontale”. Sarebbe più coerente con la lettera e lo spirito della Costituzione rinnovata affermare che i servizi locali sono, in generale, forniti dalle imprese nel mercato in regime di libera concorrenza e che l’intervento degli enti locali, sotto forma di regolazione, avviene solo quando sia comprovato, per esempio da un parere espresso dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che il mercato, eventualmente con semplici correttivi dal lato della domanda, non ce la può fare. Il comma m dell’art. 2 appare, sotto questo profilo, assai poco incisivo.

 

Il costo politico delle riforme

 

Forse l’aspetto più preoccupante è celato nelle poche righe con cui si apre la Relazione tecnica: “dal presente disegno di legge non derivano nuovi oneri o minori entrate a carico della finanza pubblica, essendo previste misure che non comportano nuove o maggiori attività amministrative, né richiedono l’istituzione di nuovi organi o competenze, e non essendo previsti né incentivi di alcun tipo, né misure fiscali”. Insomma, il Ddl appare ancora prigioniero della retorica delle “riforme senza costi”. Una retorica le cui principali vittime sono le riforme stesse. Le riforme, se sono incisive, danno benefici di lungo periodo che superano i costi. Questi, però, sono concentrati quasi tutti nel breve periodo e gravano su soggetti, politici e sociali, capaci di esercitare pesanti veti.
Nel Ddl manca proprio un coerente disegno di incentivi, con spese e tagli condizionati a comportamenti virtuosi, che compensino il costo politico e sociale di privatizzazioni e liberalizzazioni. Nel cosiddetto “documento Rutelli” sulle liberalizzazioni, al punto 5, sono previsti strumenti per accompagnare e sostenere i processi di liberalizzazione, tra cui ammortizzatori sociali da estendere ai lavoratori che operano nei settori oggetto delle liberalizzazioni e incentivi agli enti locali che liberalizzano e privatizzano nella forma di “deroghe ai vincoli previsti dal Patto di stabilità“. Si tratta di importanti passi avanti. È ora da sperare che si traducano rapidamente in articoli di legge.

 


(1)
Introdotto con l’art. 35 della legge 448/2001, poi confermata con l’art. 14 del Dl 269/03, ulteriormente modificato con l’art. 4 della L 350/03, noto come “lodo Buttiglione”.